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giovedì 18 ottobre 2012

1880 - Vita di Gesù (paragrafi 544-548)


Istituzione dell'Eucaristia

§ 544. A questo punto, il banchetto pasquale doveva esser molto avanzato, e prossimo alla fine forse la seconda coppa era quasi consumata, e fra poco si doveva mescere la terza coppa (§ 75). A un tratto Gesù compié un'azione insolita, non contemplata dal rito della cena pasquale. Prese egli una focaccia di pane azimo e, dopo aver pronunziata una formula di benedizione, ne staccò dei pez­zi che distribuì agli Apostoli dicendo: Prendete, mangiate; questo e' il corpo mio, che per voi (e') dato. Ciò fate nel mio ri­cordo. Poco dopo, probabilmente quando fu versata alla fine della cena la terza coppa rituale, egli prese un calice pieno di vino temperato e, avendo parimente reso grazie, ne fece bere a tutti dicendo: Bevete da esso tutti. Questo calice (e') il nuovo testamento nel san­gue mio, che per molti (e') versato. Ciò fate, quante volte (ne) bevia­te, nel mio ricordo. Quale impressione facesse personalmente sugli Apostoli questa dop­pia azione di Gesù non ci vien detto dai Sinottici, ma ciò non si­gnifica gran che; d'assai maggior importanza è invece l'impressione e l'effetto permanente che ne ricevette tutta la primissima società cri­stiana, la quale fu l'interprete sotto ogni aspetto più autorevole di quella doppia azione di Gesù e delle parole che l'accompagnarono. E qui, per riscontrare i fatti storici, abbiamo a nostra disposizione due eccellenti specole d'osservazione, poste a una certa distanza l'una dall'altra. Circa venticinque anni dopo l'ultima cena di Gesù, Paolo scriveva ai cristiani di Corinto quella sua lettera (I Cor., 11, 23-29) ove l'Eu­caristia è presentata come rito stabile e abituale, come rito per cui il fedele che vi partecipava mangiava veramente il corpo e beveva veramente il sangue di Gesù, come rito infine ricollegato direttamente con la doppia azione di Gesù nell'ultima cena e con la sua morte redentrice. Nessun dubbio che questo insegnamento di Paolo, da lui già trasmesso negli anni precedenti ai fedeli di Corinto (ivi, il, 23), fosse stato trasmesso anche alle altre comunità da lui catechizzate e si trovasse in pieno accordo con la catechesi degli altri Apostoli; questa, insomma, era la maniera in cui la catechesi primitiva e la li­turgia primitiva interpretavano e rinnovavano la doppia azione com­piuta da Gesù nell'ultima cena. Un quarantennio più tardi della lettera di Paolo incontriamo un'al­tra specola che funziona in maniera differente ma non meno pre­cisa: è il IV vangelo, il solo vangelo che non racconti l'istituzione dell'Eucaristia. Già sappiamo che questo silenzio è più eloquente, in qualche modo, di un racconto effettivo (§§ 378-383); ma qui si può aggiungere un'altra considerazione. Anche dato e non concesso che autore del IV vangelo sia, non l'apostolo Giovanni, ma uno sconosciuto mistico solitario, questo autore molto probabilmente cono­sceva la lettera di Paolo, indubbiamente conosceva gli scritti dei Si­nottici, certissimamente era edotto della liturgia eucaristica diffusa alla fine del secolo i ovunque era una comunità cristiana; egli dun­que, della fede dei suoi tempi, è un testimonio silenzioso ma non meno efficace, in quanto serba silenzio sull'istituzione ma ne mette in sommo rilievo gli effetti spirituali col suo discorso sul pane vivo (§ 387 segg.): del resto oggi ciò è ammesso anche da studiosi radicali (§ 373, nota). In conclusione l'autore del IV vangelo concorda pie­namente con la catechesi di Paolo e con quella dei Sinottici, e le conferma accettandole in parte silenziosamente, e in parte mettendole in accurato rilievo.

§ 545. Tornando ora agli Apostoli e all'impressione immediata che ricevettero dalle parole di Gesù, bisogna riconoscere che fu un'impressione meno nuova di quanto sembrerebbe a prima vista; anzi, in qualche modo, essa fu la risoluzione di un vecchio enigma che s'agi­tava nelle menti di quegli uomini. L'antico discorso sul pane vivo non solo non era stato giammai da essi dimenticato, ma piuttosto di tempo in tempo aveva dovuto riaf­facciarsi alle loro menti come un'arcana promessa rimasta tuttora inadempiuta. In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del figlio dell'uomo e beviate il sangue di lui, non avete vita in voi stessi... La carne mia è vero nutrimento, e il sangue mio e' vera be­vanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue in me rimane e io in lui... chi mangia me, egli pure vivrà per me. Questo e' il pane disceso dal cielo, ecc. Affermazioni di questo genere aveva fatte Gesù a Cafarnao molti mesi prima, ma fino all'ultima cena egli non aveva offerto maniera ai suoi discepoli di eseguire questo comando cosl essenziale per avere vita in se stessi. E in qual maniera, poi, avreb­be egli reso “molle” un discorso così duro (§ 382)? In qual maniera avrebbe reso umano e spirituale un banchetto che sembrava da an­tiopofagi? La “durezza” delle affermazioni aveva scandalizzato mol­ti discepoli di Gesù, i quali lo avevano abbandonato: i dodici in­vece gli erano rimasti fedeli, perché il maestro aveva parole di vita eterna; tuttavia nei molti mesi trscorsi quelle parole ancora non erano state avverate, e certamente i dodici più d'una volta si saran­no domandati dubbiosi se il maestro non si era dimenticato della piomessa, ovvero in che maniera l'avrebbe mantenuta. Improvvisamente, quella notte, essi vedono il maestro distribuire pa­ne e vino, dicendo “Questo è il mio corpo”;”Questo e' il mio san­gue”. Con tale doppia azione e doppia affermazione il vecchio enig­ma era risolto, l'antica promessa era mantenuta, e il vero significato dell'azione e dell'affermazione appariva mirabilmente chiaro alla luce del discorso sul pane vivo: l'apparente pane e l'apparente vino allora distribuiti erano in realtà il corpo e il sangue del maestro. Chi pertanto abbia presente lo stile sentenzioso e riflesso di Giovanni troverà possibilissimo che, quando egli afferma aver Gesù amato i suoi (sino) in fine, con questa frase alluda appunto all'istituzione dell'Eucaristia da lui non raccontata (§ 541).

§ 546. Un'azione così importante di Gesù, compiuta da lui in circo­stanze cosi solenni, e per dippiù divenuta la base della vita religiosa della Chiesa fin dalla prima generazione cristiana, non poteva non attirare la particolarissima attenzione degli studiosi radicali. Gesù ha realmente compiuto la doppia azione e pronunziato la dop­pia affermazione dell'ultima cena? Ciò che i Sinottici e Paolo narrano su questo argomento è realmente storico, ovvero ha di storico soltanto un piccolo nucleo, ingrandito più tardi e travisato dall'elaborazione della prima generazione cri­stiana? Ebbe Gesù intenzione d'istituire un vero rito stabile da rinnovarsi in seguito dai suoi discepoli, ovvero fece una semplice azione simbolica la quale valeva solo in quanto fatta da lui in quelle circostanze, ma senza ch'egli comandasse di rinnovare l'azione in seguito? Queste ed altre domande concomitanti che furono proposte non ri­guardano soltanto l'Eucaristia in sé ma investono l'intera operosità di Gesù, che sarà valutata differentemente a seconda di come si risponde a queste domande. Se si accetta infatti il racconto dei Si­nottici e di Paolo come sta, bisogna riconoscere che Gesù attribuiva alla sua morte un valore di redenzione (il corpo mio che per voi è dato;... il sangue mio che per molti e' versato); bisogna anche am­mettere che egli intendeva fondare una particolare religione, con un suo ben distinto rito, il quale ricordasse perennemente la morte re­dentrice del fondatore (ciò fate... nel mio ricordo).Ora, queste ed altre conseguenze smentivano più o meno ampiamente le interpre­tazioni che della figura e opera di Gesù davano le teorie contempo­ranee, da quella della Scuola liberale a quella degli escatologisti il mellifluo predicatore dell'universale paternità divina immaginato dai liberali (§ 204 segg.) non pensava certamente alla sua morte co­me a un vero sacrifizio di redenzione per l'umanità; tanto meno il visionario ritrovato dagli escatologisti poteva preoccuparsi di fon­dare una particolare religione con un ben distinto rito che soprav­vivesse alla catastrofe del « secolo » presente (§ 209 segg.). Per sal­vare dunque le teorie bisognava dimostrare che Gesù non ha affat­to istituito l'Eucaristia; e per ottenere ciò bisognava sottoporre a una vigile interpretazione i racconti dei Sinottici e di Paolo. Ora, noi già sappiamo che le vigili interpretazioni degli studiosi radicali si riducono, immancabilmente, a ripudiare come aggiunti e tardivi quei passi che non s'inquadrano in una preconcetta teoria; ma in questo caso, meglio forse che in ogni altra questione dei vangeli, appare chiaramente la ferrea necessità della logica per cui, quando in siffatti testi si cominci a negare una parte, si finisce inevitabilmente a negare e ripudiare tutto quanto.

§ 547. Si cominciò dunque col negare che Gesù avesse comandato agli Apostoli di rinnovare in seguito il rito, rendendolo un rito pe­renne; poiché infatti il gruppo di Matteo e di Marco non riferisce le parole ciò fate... nel mio ricordo, se ne concluse che tali parole no un'aggiunta posteriore introdotta dal gruppo di Paolo e di Lu­ca, e quindi da ripudiarsi. Rimaneva però ancora molto, cioè che il corpo di Gesù per voi e' dato, che il calice del suo sangue è il nuovo testamento ed è per mol­ti versato:rimaneva insomma l'idea della morte redentrice del Cri­sto. Ma anche questo molto fu man mano ripudiato con lo stesso procedimento: si decretò che erano tutte aggiunte posteriori, dovute all'influenza delle elaborazioni teologiche di Paolo. E vero che pure nel gruppo di Matteo e di Marco si trova che il sangue del Cristo è ilsangue del (nuovo) testamento e che per molti e' versato in remissione di peccati. Ma ciò che dimostrava? Nulla. Anche questo era da ripudiarsi, come un'aggiunta dovuta all'influenza di Paolo. Rimane­vano quindi, come primitive, le sole parole Questo e' il corpo mio; Questo è il sangue mio, pronunziate alludendo ai convito messianico, presentando il pane e il vino come simbolo di quel convito, ma sen­za relazione alla sua imminente morte. Eppure, anche dopo queste amputazioni, restavano ancora seri dub­bi. Erano proprio primitive e genuine ambedue quelle affermazioni risparmiate? Ci si ripensò sopra, e si finì per concludere che non potevano essere risparruiate asnbedue. Alla nuova amputazione offrì pretesto il fatto che, tra la congerie di codici antichissimi e tutti so­stanzialmente uniformi, ve n'era uno - il disputatissimo codice di Beza - suffragato da pochi altri di antiche versioni, nel quale il rac­conto di Luca è ridotto a queste parole: E preso il pane, avendo re­so grazie (lo) spezzò e dette loro dicendo: “Questo e' il corpo mio”; tutto il resto è ivi omesso, compresa la distribuzione del vino e le relative parole. Questo - si disse - era il racconto primitivo: la sola presentazione del pane, senza alcuna contrapposizione del pane-corpo al vino-sangue, ossia senza l'idea della morte, e naturalmente senza il comando di rinnovare il rito in seguito. Rimaneva cosi il pane insieme con la sua presentazione. Eppure an­che questo rudere superstite non soddisfece, se non altro perché trop­po esigno e insignificante. Che cosa, insomma, aveva Gesù inteso fa­re presentando il pane come suo corpo? Non aveva egli mangiato centinaia di volte il pane insieme con i suoi discepoli? Ovvero quella volta il pasto comune aveva un significato particolare come pasto di haberuth, di « colleganza » (§ 39)? Ma in tal caso il suo significato particolare gli proveniva dalla morte imminente di Gesù, e quindi si ritornava alla già respinta relazione con la morte. No, con tutte le precedenti amputazioni non si era ottenuto nulla di sicuro; per trovare un terreno storico più sodo e spazioso bisognava scendere alla liturgia della Chiesa primitiva, e ricercare che cosa intendessero fare quei primi cristiani compiendo il rito dell'Eucaristia e attribuendone l'istituzione a Gesù. E, in primo luogo, era un rito di provenienza giudaica o straniera? Si ricercò nel giudaismo tardivo, ma non se ne trasse nulla di soddisfacente. Fu applicato il metodo della Storia comparata delle reli­gioni (§ 214). Si pensò a primitivi riti di totemismo e di teofagia; più accuratamente s'investigarono i riti di Iside ed Osiride, e l'emo­fagia dei culti di Sabazio e di Dioniso; un'attenzione anche maggiore si portò ai misteri Eleusini e ai banchetti di Mithra. Certamente si trovarono notizie peregrine e si fecero osservazioni importanti su questi riti pagani; ma quando si giunge al vero nodo della questio­ne, ossia alle loro relazioni col rito eucaristico del cristianesimo pri­mitivo, si presero anche lucciole per lanterne e si affermò che una zanzara è uguale in tutto a un'aquila dal momento che ambedue hanno le ali e volano e si nutrono di sangue. Soprattutto, poi, queste dotte ricerche parvero come tanti voli fatti in aria, lontano dal terreno della realtà storica: prima di pensare a Iside ed Osiride e ad altre infiltrazioni orientali, bisognava infatti fare i conti con S. Paolo e vedere se egli lasciava il tempo materiale al penetrare di tali infil­trazioni nel cristianesimo.

§ 548. S. Paolo infatti scrive la sua lettera ai Corinti nell'anno 56, ma egli stesso dice di avere ammaestrato oralmente i Corinti sul rito eucaristico in precedenza (§ 544), ossia quando aveva fondato quella comunità cristiana. Ciò era avvenuto nell'anno 51. Ma anche que­st'anno è troppo tardivo per la nostra questione, perché in quel tem­po Paolo possedeva gia riguardo all'Eucaristia la sua dottrina ben definita e certamente concorde con la catechesi e con la dottrina del­le altre comunità: ossia egli la possedeva già prima del 50, a meno d'un ventennio dall'ultima cena di Gesù. Ma anche da questo ven­tennio sono da togliersi altri anni. Solo verso il 36 Paolo, fino allora intransigente fariseo, passa nel numero dei perseguitati discepoli del Cristo; ma naturalmente ancora per parecchio tempo egli rimane nella penombra e mena una vita o del tutto solitaria o semipubblica fra l'Arabia, Damasco e Tarso. Soltanto col primo grande viaggio missionario Paolo diventa una figura di primo piano nel cristiane­simo primitivo, ma è il viaggio che comincia tra il 44-45 per termi­nare nel 49; siamo con ciò al periodo, testé accennato, in cui Paolo già possedeva una dottrina ben definita riguardo all'Eucaristia. Ora, troppe e troppo inverosimili cose sarebbero da ammassarsi, secondo l'ipotesi radicale, in questo decennio che va dal 36 al 45 circa, per potersi ammettere quell'ipotesi. In primo luogo che Paolo, indomabile avversario dell'idolatria ieri come Fariseo e oggi come discepolo del Cristo, prenda appunto dal­l'idolatria quello che sarà il fondamentale rito liturgico del cristiane­simo; inoltre che egli abbia, in quei suoi primi anni, tanta autorità da diffonderlo nelle chiese cristiane della più diversa origine; poi, che egli riesca cosi rapidamente in questa diffusione da ottenere che già prima del 50 il rito fosse comune, fondamentale, unico. No: questa non è storia; sono voli di fantasia, guidata da preconcetti ma non dai documenti. La pagina di Paolo sull'Eucaristia è tale docu­mento da troncare tutti codesti voli; essa, debitamente illuminata dall'operosità dei primi anni cristiani di Paolo, dimostra che l'apo­stolo ha desunto la sua dottrina eucaristica dalla chiesa di Gerusa­lemme, verso la quale egli ha tenuto sempre fisso lo sguardo e nella quale si è recato anche più volte in persona nel decennio suddetto. E la chiesa di Gerusalemme era quella dov'era avvenuta l'ultima ce­na di Gesù. La forza di questo elementare ragionamento è stata sentita anche nel campo degli studiosi radicali, almeno dai più logici e franchi tra essi. E allora non è rimasto altro che fare l'ultimo passo nella via della negazione, ricorrendo al solito metodo di dichiarare aggiunta e tardiva la pagina di Paolo. E anche questo passo è stato fatto: il rac­conto paolino dell'Eucaristia è stato dichiarato falso e interpolato, per la sola ma decisiva ragione che non si accorda con la teoria pre­concetta (§ 219). Qualunque studioso sereno giudicherà sul carattere scientifico di que­sti procedimenti.

Predizione del rinnegamento di Pietro

§ 549.
 La cena era finita con la recita della seconda parte dell'Hal­leI (cfr. hymno dicto; Matteo, 26, 30; Marco, 14, 26) e con la con­sumazione della quarta coppa. Ma la comitiva s’intrattenne ancora molto tempo nella sala della cena, come si usava nella notte di Pa­squa (§ 75); durante questo lungo indugio avvenne, secondo Luca (22 31 segg.) e Giovanni (13, 36 segg.) la predizione della dispersione degli Apostoli e del rinnegamento di Pietro, che secondo Mat­teo e Marco semhrerebbe avvenuta dopo l'uscita dalla sala. A un certo punto Gesù, rivoltosi agli Apostoli, mestamente dice loro: Voi tutti prenderete scandalo in me in questa notte; sta scritto infatti “Percoterò il pastore, e saranno disperse. le pecore del gregge” (cfr. Zacharia, I 3, 7). Ma dopo che io sia risorto, vi precederò nella Galilea. Era un'altra ancora di quelle tetre previsioni che davano tanto sui nervi agli Apostoli. La loro insofferenza apparve subito sul viso a parecchi, e specialmente all'impetuoso Pietro. Ma Gesù non cambia tono; anzi, voltandosi proprio verso Pietro, soggiunge: Si­mone! Simone! Ecco il Satana cercò di voi (altri), per vagliar(vi) come (si vaglia) il grano. Ma io pregai per te affinché non venga meno la tua fede; e tu, una volta tornato addietro, conferma i tuoi fratelli. Al bravo Pietro queste parole non piacquero affatto: egli voleva un gran bene a Gesù e, qualunque tentativo avesse fatto Satana, non avrebbe mai commesso contro il maestro alcuna vigliac­cheria da cui sarebbe tornato addietro. Il dispiacere di Pietro si colori anche di un certo risentimento, e in un dialoghetto con Gesù di cui gli evangelisti riportano frasi stac­cate egli disse fra altro: Se tutti si scandalizzeranno in te, io non mai mi scandalizzerò! - Signore! Con te sono pronto ad andare in car­cere e a morte! Nessuno, certamente, avrebbe pensato a richiamare in dubbio la sincerità di Pietro quando parlava cosl; tuttavia Gesù, cal­mo e paziente, gli dette la seguente risposta, riportata da Marco (14, 30) che l'avrà udita centinaia di volte da Pietro stesso quando pre­dicava: in verità ti dico che tu oggi, questa notte, prima che il gallo abbia cantato due volte, mi avrai rinnegato tre volte. Questo era troppo per Pietro! Un fiume di proteste e d'attestazioni eruppe allora dalla sua bocca; Marco, volendo forse usare un certo riguar­do al suo padre spirituale, accenna a questo fiume dicendo che Pietro parla in maniera sovrabbondante e ripeteva che, sep­pure avesse dovuto morire insieme col maestro, non lo avrebbe rin­negato. Altrettanto, più o meno, dicevano anche gli altri Apostoli. Gesù dal canto suo mostrava di non avere troppa fiducia, non già sul­la sincerità, ma sulla sodezza di tutte queste attestazioni, e continuò ad esortarli affinché, come avevano avuto fiducia in lui nel passato, l'avessero anche nella durissima lotta che allora stava per cominciare (Luca, 22, 35-37). A questa esortazione, la focosità bellicosa degli A­postoli divampa anche più. Se è venuto il momento di lottare e com­battere, essi sono tutti pronti: o vinceranno a fianco al maestro, o cadranno tutti con le arini in pugno! E passando subito dalle parole ai fatti, rivolgono al loro capitano ciò che sembra quasi un invito a passare in rivista il loro armamento. C'erano in quella sala, forse a caso, due spade. Mostrandole a Gesù, essi gli dicono: Signore, ecco qui due spade! E Gesù con infinita pazienza, forse con un mesto sor­riso, risponde: Basta (così). Quante cose rimanevano velate sotto quel Basta così! Fino all'ultimo momento, né gli Apostoli smentivano la loro grossezza di men­te nel comprendere, né Gesù abbreviava la sua longanimità di cuore nel tollerare.

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