Il Signore ti benedica,ti custodisca e ti mostri il Suo volto misericordioso!

Quando pensi di aver toccato il fondo e che nessuno ti voglia o ti ami più, Dio si fa uomo per incontrarti, Gesù ti viene accanto

CIAO A TE !!

Nulla è più urgente nel mondo d'oggi di proclamare Cristo alle genti. Chiunque tu sia, puoi, se vuoi, lasciare un tuo contributo, piccolo o grande che sia, per dire, comunicare, annunciare la persona di Gesù Cristo, unico nostro salvatore. Uno speciale benvenuto a LADYBUG che si è aggiunta di recente ai sostenitori ! *************************************************** Questo blog è sotto la protezione di N.S. Gesù Cristo e della SS Vergine Maria, Sua Madre ed ha come unica ragione di esistere di fornire un contributo, sia pure piccolo ed umile, alla crescita della loro Gloria. ***************************************************



Con Cristo non ci sono problemi, senza Cristo non ci sono soluzioni.

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venerdì 29 aprile 2011

941 - Udienza del 27/4/2011 (L'ottava di Pasqua)

Cari fratelli e sorelle,

in questi primi giorni del Tempo Pasquale, che si prolunga fino a Pentecoste, siamo ancora ricolmi della freschezza e della gioia nuova che le celebrazioni liturgiche hanno portato nei nostri cuori. Pertanto, oggi vorrei riflettere con voi brevemente sulla Pasqua, cuore del mistero cristiano. Tutto, infatti, prende avvio da qui: Cristo risorto dai morti è il fondamento della nostra fede. Dalla Pasqua si irradia, come da un centro luminoso, incandescente, tutta la liturgia della Chiesa, traendo da essa contenuto e significato. La celebrazione liturgica della morte e risurrezione di Cristo non è una semplice commemorazione di questo evento, ma è la sua attualizzazione nel mistero, per la vita di ogni cristiano e di ogni comunità ecclesiale, per la nostra vita. Infatti, la fede nel Cristo risorto trasforma l’esistenza, operando in noi una continua risurrezione, come scriveva san Paolo ai primi credenti: «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità» (Ef 5, 8-9).
Come possiamo allora far diventare “vita” la Pasqua?
Come può assumere una “forma” pasquale tutta la nostra esistenza interiore ed esteriore?
Dobbiamo partire dalla comprensione autentica della risurrezione di Gesù: tale evento non è un semplice ritorno alla vita precedente, come lo fu per Lazzaro, per la figlia di Giairo o per il giovane di Nain, ma è qualcosa di completamente nuovo e diverso. La risurrezione di Cristo è l’approdo verso una vita non più sottomessa alla caducità del tempo, una vita immersa nell’eternità di Dio. Nella risurrezione di Gesù inizia una nuova condizione dell’essere uomini, che illumina e trasforma il nostro cammino di ogni giorno e apre un futuro qualitativamente diverso e nuovo per l’intera umanità. Per questo, san Paolo non solo lega in maniera inscindibile la risurrezione dei cristiani a quella di Gesù (cfr 1Cor 15,16.20), ma indica anche come si deve vivere il mistero pasquale nella quotidianità della nostra vita.
Nella Lettera ai Colossesi, egli dice: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo seduto alla destra di Dio, rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (3,1-2). A prima vista, leggendo questo testo, potrebbe sembrare che l'Apostolo intenda favorire il disprezzo delle realtà terrene, invitando cioè a dimenticarsi di questo mondo di sofferenze, di ingiustizie, di peccati, per vivere in anticipo in un paradiso celeste. Il pensiero del “cielo” sarebbe in tale caso una specie di alienazione. Ma, per cogliere il senso vero di queste affermazioni paoline, basta non separarle dal contesto. L'Apostolo precisa molto bene ciò che intende per «le cose di lassù», che il cristiano deve ricercare, e «le cose della terra», dalle quali deve guardarsi. Ecco anzitutto quali sono «le cose della terra» che bisogna evitare: «Fate morire – scrive san Paolo – ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria» (3,5-6). Far morire in noi il desiderio insaziabile di beni materiali, l’egoismo, radice di ogni peccato. Dunque, quando l'Apostolo invita i cristiani a distaccarsi con decisione dalle «cose della terra», vuole chiaramente far capire ciò che appartiene all’«uomo vecchio» di cui il cristiano deve spogliarsi, per rivestirsi di Cristo.
Come è stato chiaro nel dire quali sono le cose verso le quali non bisogna fissare il proprio cuore, con altrettanta chiarezza san Paolo ci indica quali sono le «cose di lassù», che il cristiano deve invece cercare e gustare. Esse riguardano ciò che appartiene all’«uomo nuovo», che si è rivestito di Cristo una volta per tutte nel Battesimo, ma che ha sempre bisogno di rinnovarsi «ad immagine di Colui che lo ha creato» (Col 3,10).
Ecco come l’Apostolo delle Genti descrive queste «cose di lassù»: «Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri (...). Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto» (Col 3,12-14). San Paolo è dunque ben lontano dall'invitare i cristiani, ciascuno di noi, ad evadere dal mondo nel quale Dio ci ha posti.
E’ vero che noi siamo cittadini di un'altra «città», dove si trova la nostra vera patria, ma il cammino verso questa meta dobbiamo percorrerlo quotidianamente su questa terra. Partecipando fin d'ora alla vita del Cristo risorto dobbiamo vivere da uomini nuovi in questo mondo, nel cuore della città terrena.
E questa è la via non solo per trasformare noi stessi, ma per trasformare il mondo, per dare alla città terrena un volto nuovo che favorisca lo sviluppo dell'uomo e della società secondo la logica della solidarietà, della bontà, nel profondo rispetto della dignità propria di ciascuno. L’Apostolo ci ricorda quali sono le virtù che devono accompagnare la vita cristiana; al vertice c'è la carità, alla quale tutte le altre sono correlate come alla fonte e alla matrice. Essa riassume e compendia «le cose del cielo»: la carità che, con la fede e la speranza, rappresenta la grande regola di vita del cristiano e ne definisce la natura profonda.
La Pasqua, quindi, porta la novità di un passaggio profondo e totale da una vita soggetta alla schiavitù del peccato ad una vita di libertà, animata dall’amore, forza che abbatte ogni barriera e costruisce una nuova armonia nel proprio cuore e nel rapporto con gli altri e con le cose. Ogni cristiano, così come ogni comunità, se vive l’esperienza di questo passaggio di risurrezione, non può non essere fermento nuovo nel mondo, donandosi senza riserve per le cause più urgenti e più giuste, come dimostrano le testimonianze dei Santi in ogni epoca e in ogni luogo. Sono tante anche le attese del nostro tempo: noi cristiani, credendo fermamente che la risurrezione di Cristo ha rinnovato l’uomo senza toglierlo dal mondo in cui costruisce la sua storia, dobbiamo essere i testimoni luminosi di questa vita nuova che la Pasqua ha portato. La Pasqua è dunque dono da accogliere sempre più profondamente nella fede, per poter operare in ogni situazione, con la grazia di Cristo, secondo la logica di Dio, la logica dell’amore. La luce della risurrezione di Cristo deve penetrare questo nostro mondo, deve giungere come messaggio di verità e di vita a tutti gli uomini attraverso la nostra testimonianza quotidiana.
Cari amici, Sì, Cristo è veramente risorto! Non possiamo tenere solo per noi la vita e la gioia che Egli ci ha donato nella sua Pasqua, ma dobbiamo donarla a quanti avviciniamo. E’ il nostro compito e la nostra missione: far risorgere nel cuore del prossimo la speranza dove c’è disperazione, la gioia dove c’è tristezza, la vita dove c’è morte. Testimoniare ogni giorno la gioia del Signore risorto significa vivere sempre in “modo pasquale” e far risuonare il lieto annuncio che Cristo non è un’idea o un ricordo del passato, ma una Persona che vive con noi, per noi e in noi, e con Lui, per e in Lui possiamo fare nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5).
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giovedì 28 aprile 2011

940 - Messaggio Medjugorje 25/4/2011

Cari figli, come la natura dà i colori più belli dell'anno, così anch'io vi invito a testimoniare con la vostra vita e ad aiutare gli altri ad avvicinarsi al mio Cuore Immacolato perché la fiamma dell'amore verso l'Altissimo germogli nei loro cuori.
Io sono con voi e prego incessantemente per voi perché la vostra vita sia il riflesso del paradiso qui sulla terra.
Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
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939 - Messaggio Urbi et Orbi Pasqua 2011

“In resurrectione tua, Christe, caeli et terra laetentur – Nella tua risurrezione, o Cristo, gioiscano i cieli e la terra” (Lit. Hor.).



Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!
Il mattino di Pasqua ci ha riportato l’annuncio antico e sempre nuovo: Cristo è risorto! L’eco di questo avvenimento, partita da Gerusalemme venti secoli fa, continua a risuonare nella Chiesa, che porta viva nel cuore la fede vibrante di Maria, la Madre di Gesù, la fede di Maddalena e delle altre donne, che per prime videro il sepolcro vuoto, la fede di Pietro e degli altri Apostoli.
Fino ad oggi – anche nella nostra era di comunicazioni ultratecnologiche – la fede dei cristiani si basa su quell’annuncio, sulla testimonianza di quelle sorelle e di quei fratelli che hanno visto prima il masso rovesciato e la tomba vuota, poi i misteriosi messaggeri i quali attestavano che Gesù, il Crocifisso, era risorto; quindi Lui stesso, il Maestro e Signore, vivo e tangibile, apparso a Maria di Magdala, ai due discepoli di Emmaus, infine a tutti gli undici, riuniti nel Cenacolo (cfr Mc 16,9-14).
La risurrezione di Cristo non è il frutto di una speculazione, di un’esperienza mistica: è un avvenimento, che certamente oltrepassa la storia, ma che avviene in un momento preciso della storia e lascia in essa un’impronta indelebile. La luce che abbagliò le guardie poste a vigilare il sepolcro di Gesù ha attraversato il tempo e lo spazio. E’ una luce diversa, divina, che ha squarciato le tenebre della morte e ha portato nel mondo lo splendore di Dio, lo splendore della Verità e del Bene.
Come i raggi del sole, a primavera, fanno spuntare e schiudere le gemme sui rami degli alberi, così l’irradiazione che promana dalla Risurrezione di Cristo dà forza e significato ad ogni speranza umana, ad ogni attesa, desiderio, progetto. Per questo il cosmo intero oggi gioisce, coinvolto nella primavera dell’umanità, che si fa interprete del muto inno di lode del creato. L’alleluia pasquale, che risuona nella Chiesa pellegrina nel mondo, esprime l’esultanza silenziosa dell’universo, e soprattutto l’anelito di ogni anima umana sinceramente aperta a Dio, anzi, riconoscente per la sua infinita bontà, bellezza e verità.
“Nella tua risurrezione, o Cristo, gioiscano i cieli e la terra”. A questo invito alla lode, che si leva oggi dal cuore della Chiesa, i “cieli” rispondono pienamente: le schiere degli angeli, dei santi e dei beati si uniscono unanimi alla nostra esultanza. In Cielo tutto è pace e letizia. Ma non è così, purtroppo, sulla terra! Qui, in questo nostro mondo, l’alleluia pasquale contrasta ancora con i lamenti e le grida che provengono da tante situazioni dolorose: miseria, fame, malattie, guerre, violenze. Eppure, proprio per questo Cristo è morto ed è risorto! E’ morto anche a causa dei nostri peccati di oggi, ed è risorto anche per la redenzione della nostra storia di oggi. Perciò, questo mio messaggio vuole raggiungere tutti e, come annuncio profetico, soprattutto i popoli e le comunità che stanno soffrendo un’ora di passione, perché Cristo Risorto apra loro la via della libertà, della giustizia e della pace.
Possa gioire la Terra che, per prima, è stata inondata dalla luce del Risorto.
Il fulgore di Cristo raggiunga anche i Popoli del Medio Oriente, affinché la luce della pace e della dignità umana vinca le tenebre della divisione, dell’odio e delle violenze.
In Libia la diplomazia ed il dialogo prendano il posto delle armi e si favorisca, nell’attuale situazione conflittuale, l’accesso dei soccorsi umanitari a quanti soffrono le conseguenze dello scontro.
Nei Paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente, tutti i cittadini - ed in particolare i giovani - si adoperino per promuovere il bene comune e per costruire società, dove la povertà sia sconfitta ed ogni scelta politica risulti ispirata dal rispetto per la persona umana.
Ai tanti profughi e ai rifugiati, che provengono da vari Paesi africani e sono stati costretti a lasciare gli affetti più cari arrivi la solidarietà di tutti; gli uomini di buona volontà siano illuminati ad aprire il cuore all’accoglienza, affinché in modo solidale e concertato si possa venire incontro alle necessità impellenti di tanti fratelli; a quanti si prodigano in generosi sforzi e offrono esemplari testimonianze in questa direzione giunga il nostro conforto e apprezzamento.
Possa ricomporsi la civile convivenza tra le popolazioni della Costa d’Avorio, dove è urgente intraprendere un cammino di riconciliazione e di perdono per curare le profonde ferite provocate dalle recenti violenze.
Possano trovare consolazione e speranza la terra del Giappone, mentre affronta le drammatiche conseguenze del recente terremoto, e i Paesi che nei mesi scorsi sono stati provati da calamità naturali che hanno seminato dolore e angoscia.
Gioiscano i cieli e la terra per la testimonianza di quanti soffrono contraddizioni, o addirittura persecuzioni per la propria fede nel Signore Gesù. L’annuncio della sua vittoriosa risurrezione infonda in loro coraggio e fiducia.
Cari fratelli e sorelle! Cristo risorto cammina davanti a noi verso i nuovi cieli e la terra nuova (cfr Ap 21,1), in cui finalmente vivremo tutti come un’unica famiglia, figli dello stesso Padre. Lui è con noi fino alla fine dei tempi. Camminiamo dietro a Lui, in questo mondo ferito, cantando l’alleluia. Nel nostro cuore c’è gioia e dolore, sul nostro viso sorrisi e lacrime. Così è la nostra realtà terrena. Ma Cristo è risorto, è vivo e cammina con noi. Per questo cantiamo e camminiamo, fedeli al nostro impegno in questo mondo, con lo sguardo rivolto al Cielo.
Buona Pasqua a tutti!
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938 - Ama te stesso

Matteo 22, 36-39

Un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: ''Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?''.
Gli rispose: ''Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente.
Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.


Isaia 43, 4
''Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo''.
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sabato 23 aprile 2011

937 - La Pasqua nella gioia del Cristo risorto

ROMA, giovedì, 21 aprile 2011 (ZENIT.org).
Cari amici, buona Pasqua! La Risurrezione di Cristo è la garanzia della nostra immortalità. Io ho coscienza di essere debole, mi ammalo, invecchio, sono pieno di malanni e di sofferenze. Nella vita, in un modo o nell’altro, abbiamo tutti le nostre croci. Ma so che prima o poi il mio Angelo custode mi dirà: “Piero, adesso saluta tutti, perché è venuta la tua ora. Oggi stesso ti porto in Paradiso!”. E immagino quando il mio “Big Peter” (il grande Pietro perché io sono quello piccolo) mi porterà in volo verso il Cielo e mi ritroverò improvvisamente nell’altra vita, la vera vita che non tramonta più: rivedo i miei genitori, i fratelli, i parenti, gli amici, tantissime persone care che mi stavano aspettando e conosco di persona la cara Mamma del Cielo, la Vergine Maria!

Che feste, ragazzi! E poi vedo faccia a faccia il “Padre nostro che sta nei cieli”: una visione che non riesco nemmeno ad immaginare; ma so che Dio mi vuole bene, mi ha dato tanti doni, mi aiuta, mi coccola, mi protegge, mi perdona. L’ho pregato tante volte, certamente mi darà il passaporto per la vita eterna! Ecco, la Pasqua è tutto questo. Gesù è risorto per darmi la certezza che anch’io risorgerò e avrò un posto nel suo Regno di pace, di gioia, di fraternità e di amore…. Che grande cosa la fede, care sorelle e cari fratelli! “Questo è il giorno che ha fatto il Signore. Venite, esultiamo, siamo felici perché Gesù è risorto!”. Nella Pasqua siamo tutti chiamati a ritrovare l’entusiasmo della fede. Prima di celebrare la S. Messa dico sempre: “Signore Gesù, riaccendi in me l’entusiasmo della mia Prima Messa, quando piangevo di gioia perché avevo raggiunto l’ideale della mia giovinezza”. Oggi chiediamo la gioia e l’entusiasmo della fede. Tutti abbiamo la fede, che però può essere una fiammella di candela che si spegne ad ogni soffiar di vento e lascia al buio o come il sole che splende a mezzogiorno, che illumina, riscalda, dà senso alla vita e gioia di vivere.
La Pasqua è la fonte della nostra gioia. Anche se abbiamo mille problemi e sofferenze, la fede ci dà serenità e gioia, quella autentica che viene da Dio. Nel 1976, sono andato in Ciad a visitare le missioni nel sud del paese e un giovane Cappuccino canadese (diocesi di Moundou) in due giorni mi ha fatto visitare la sua missione fra un popolo poverissimo, analfabeta, in villaggi di fango e di paglia, senza alcun segno di progresso moderno. Alla fine l’ho ringraziato e gli ho detto: “Caro padre Giovanni, sei proprio capitato male. Non ho mai visto un popolo a così basso livello di vita come il tuo”. Lui mi guarda e mi dice: “Ma cosa dici? Questo popolo ti sembra miserabile, invece, a viverci assieme, scopri che ha grandi valori umani, forse più di noi che siamo ricchi e istruiti. Gli voglio bene davvero e non sogno altro che rimanere qui fin che campo”. Ho pensato: “Questo ci crede davvero! La sua fede lo rende felice in una situazione umana delle più misere e quasi disumane”.
Ecco, quando ho lo tentazione di scoraggiarmi, penso a padre Giovanni e prego il Signore di dare anche me, che vivo in situazioni umane molto migliori, la sua fede e la sua gioia. Questo è il mio augurio: amici, siate felici della gioia che solo Dio può dare.


Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.
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venerdì 22 aprile 2011

936 - Dio raccoglie le nostre lacrime

Sal 55,9
"Le mie lacrime nell'otre tuo raccogli."



Gv 11,33-36
"Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: « Dove l'avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei :« Vedi come lo amava!»."


Lc 6,21
" Beati voi che ora piangete, perché riderete."
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mercoledì 20 aprile 2011

935 - Udienza del 20/4/2011 (Triduo Pasquale)

Cari fratelli e sorelle,

siamo ormai giunti al cuore della Settimana Santa, compimento del cammino quaresimale. Domani entreremo nel Triduo Pasquale, i tre giorni santi in cui la Chiesa fa memoria del mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù. Il Figlio di Dio, dopo essersi fatto uomo in obbedienza al Padre, divenendo in tutto simile a noi eccetto il peccato (cfr Eb 4,15), ha accettato di compiere fino in fondo la sua volontà, di affrontare per amore nostro la passione e la croce, per farci partecipi della sua risurrezione, affinché in Lui e per Lui possiamo vivere per sempre, nella consolazione e nella pace. Vi esorto pertanto ad accogliere questo mistero di salvezza, a partecipare intensamente al Triduo pasquale, fulcro dell’intero anno liturgico e momento di particolare grazia per ogni cristiano; vi invito a cercare in questi giorni il raccoglimento e la preghiera, così da attingere più profondamente a questa sorgente di grazia. A tale proposito, in vista delle imminenti festività, ogni cristiano è invitato a celebrare il sacramento della Riconciliazione, momento di speciale adesione alla morte e risurrezione di Cristo, per poter partecipare con maggiore frutto alla Santa Pasqua.
Il Giovedì Santo è il giorno in cui si fa memoria dell’istituzione dell’Eucaristia e del Sacerdozio ministeriale. In mattinata, ciascuna comunità diocesana, radunata nella Chiesa Cattedrale attorno al Vescovo, celebra la Messa crismale, nella quale vengono benedetti il sacro Crisma, l’Olio dei catecumeni e l’Olio degli infermi. A partire dal Triduo pasquale e per l’intero anno liturgico, questi Oli verranno adoperati per i Sacramenti del Battesimo, della Confermazione, delle Ordinazioni sacerdotale ed episcopale e dell’Unzione degli Infermi; in ciò si evidenzia come la salvezza, trasmessa dai segni sacramentali, scaturisca proprio dal Mistero pasquale di Cristo; infatti, noi siamo redenti con la sua morte e risurrezione e, mediante i Sacramenti, attingiamo a quella medesima sorgente salvifica. Durante la Messa crismale, domani, avviene anche il rinnovo delle promesse sacerdotali. Nel mondo intero, ogni sacerdote rinnova gli impegni che si è assunto nel giorno dell’Ordinazione, per essere totalmente consacrato a Cristo nell’esercizio del sacro ministero a servizio dei fratelli. Accompagniamo i nostri sacerdoti con la nostra preghiera.
Nel pomeriggio del Giovedì Santo inizia effettivamente il Triduo pasquale, con la memoria dell’Ultima Cena, nella quale Gesù istituì il Memoriale della sua Pasqua, dando compimento al rito pasquale ebraico. Secondo la tradizione, ogni famiglia ebrea, radunata a mensa nella festa di Pasqua, mangia l’agnello arrostito, facendo memoria della liberazione degli Israeliti dalla schiavitù d’Egitto; così nel cenacolo, consapevole della sua morte imminente, Gesù, vero Agnello pasquale, offre sé stesso per la nostra salvezza (cfr 1Cor 5,7). Pronunciando la benedizione sul pane e sul vino, Egli anticipa il sacrificio della croce e manifesta l’intenzione di perpetuare la sua presenza in mezzo ai discepoli: sotto le specie del pane e del vino, Egli si rende presente in modo reale col suo corpo donato e col suo sangue versato. Durante l’Ultima Cena, gli Apostoli vengono costituiti ministri di questo Sacramento di salvezza; ad essi Gesù lava i piedi (cfr Gv 13,1-25), invitandoli ad amarsi gli uni gli altri come Lui li ha amati, dando la vita per loro. Ripetendo questo gesto nella Liturgia, anche noi siamo chiamati a testimoniare fattivamente l’amore del nostro Redentore.
Il Giovedì Santo, infine, si chiude con l’Adorazione eucaristica, nel ricordo dell’agonia del Signore nell’orto del Getsemani. Lasciato il cenacolo, Egli si ritirò a pregare, da solo, al cospetto del Padre. In quel momento di comunione profonda, i Vangeli raccontano che Gesù sperimentò una grande angoscia, una sofferenza tale da fargli sudare sangue (cfr Mt 26,38). Nella consapevolezza della sua imminente morte in croce, Egli sente una grande angoscia e la vicinanza della morte. In questa situazione, appare anche un elemento di grande importanza per tutta la Chiesa. Gesù dice ai suoi: rimanete qui e vigilate; e questo appello alla vigilanza concerne proprio questo momento di angoscia, di minaccia, nella quale arriverà il proditore [traditore], ma concerne tutta la storia della Chiesa. E' un messaggio permanente per tutti i tempi, perché la sonnolenza dei discepoli era non solo il problema di quel momento, ma è il problema di tutta la storia. La questione è in che cosa consiste questa sonnolenza, in che cosa consisterebbe la vigilanza alla quale il Signore ci invita. Direi che la sonnolenza dei discepoli lungo la storia è una certa insensibiltà dell'anima per il potere del male, un’insensibilità per tutto il male del mondo. Noi non vogliamo lasciarci turbare troppo da queste cose, vogliamo dimenticarle: pensiamo che forse non sarà così grave, e dimentichiamo. E non è soltanto insensibilità per il male, mentre dovremmo vegliare per fare il bene, per lottare per la forza del bene. È insensibilità per Dio: questa è la nostra vera sonnolenza; questa insensibilità per la presenza di Dio che ci rende insensibili anche per il male. Non sentiamo Dio - ci disturberebbe - e così non sentiamo, naturalmente, anche la forza del male e rimaniamo sulla strada della nostra comodità. L'adorazione notturna del Giovedì Santo, l'essere vigili col Signore, dovrebbe essere proprio il momento per farci riflettere sulla sonnolenza dei discepoli, dei difensori di Gesù, degli apostoli, di noi, che non vediamo, non vogliamo vedere tutta la forza del male, e che non vogliamo entrare nella sua passione per il bene, per la presenza di Dio nel mondo, per l'amore del prossimo e di Dio.
Poi, il Signore comincia a pregare. I tre apostoli - Pietro, Giacomo, Giovanni - dormono, ma qualche volta si svegliano e sentono il ritornello di questa preghiera del Signore: “Non la mia volontà, ma la tua sia realizzata”. Che cos'è questa mia volontà, che cos'è questa tua volontà, di cui parla il Signore? La mia volontà è “che non dovrebbe morire”, che gli sia risparmiato questo calice della sofferenza: è la volontà umana, della natura umana, e Cristo sente, con tutta la consapevolezza del suo essere, la vita, l'abisso della morte, il terrore del nulla, questa minaccia della sofferenza. E Lui più di noi, che abbiamo questa naturale avversione contro la morte, questa paura naturale della morte, ancora più di noi, sente l'abisso del male. Sente, con la morte, anche tutta la sofferenza dell'umanità. Sente che tutto questo è il calice che deve bere, deve far bere a se stesso, accettare il male del mondo, tutto ciò che è terribile, l’avversione contro Dio, tutto il peccato. E possiamo capire come Gesù, con la sua anima umana, sia terrorizzato davanti a questa realtà, che percepisce in tutta la sua crudeltà: la mia volontà sarebbe non bere il calice, ma la mia volontà è subordinata alla tua volontà, alla volontà di Dio, alla volontà del Padre, che è anche la vera volontà del Figlio. E così Gesù trasforma, in questa preghiera, l’avversione naturale, l’avversione contro il calice, contro la sua missione di morire per noi; trasforma questa sua volontà naturale in volontà di Dio, in un “sì” alla volontà di Dio. L'uomo di per sé è tentato di opporsi alla volontà di Dio, di avere l’intenzione di seguire la propria volontà, di sentirsi libero solo se è autonomo; oppone la propria autonomia contro l’eteronomia di seguire la volontà di Dio. Questo è tutto il dramma dell'umanità. Ma in verità questa autonomia è sbagliata e questo entrare nella volontà di Dio non è un’opposizione a sé, non è una schiavitù che violenta la mia volontà, ma è entrare nella verità e nell'amore, nel bene. E Gesù tira la nostra volontà, che si oppone alla volontà di Dio, che cerca l'autonomia, tira questa nostra volontà in alto, verso la volontà di Dio. Questo è il dramma della nostra redenzione, che Gesù tira in alto la nostra volontà, tutta la nostra avversione contro la volontà di Dio e la nostra avversione contro la morte e il peccato, e la unisce con la volontà del Padre: “Non la mia volontà ma la tua”. In questa trasformazione del “no” in “sì”, in questo inserimento della volontà creaturale nella volontà del Padre, Egli trasforma l'umanità e ci redime. E ci invita a entrare in questo suo movimento: uscire dal nostro “no” ed entrare nel “sì” del Figlio. La mia volontà c'è, ma decisiva è la volontà del Padre, perché questa è la verità e l'amore.
Un ulteriore elemento di questa preghiera mi sembra importante. I tre testimoni hanno conservato - come appare nella Sacra Scrittura - la parola ebraica o aramaica con la quale il Signore ha parlato al Padre, lo ha chiamato: “Abbà”, padre. Ma questa formula, “Abbà”, è una forma familiare del termine padre, una forma che si usa solo in famiglia, che non si è mai usata nei confronti di Dio. Qui vediamo nell'intimo di Gesù come parla in famiglia, parla veramente come Figlio col Padre. Vediamo il mistero trinitario: il Figlio che parla col Padre e redime l'umanità.
Ancora un’osservazione. La Lettera agli Ebrei ci ha dato una profonda interpretazione di questa preghiera del Signore, di questo dramma del Getsemani. Dice: queste lacrime di Gesù, questa preghiera, queste grida di Gesù, questa angoscia, tutto questo non è semplicemente una concessione alla debolezza della carne, come si potrebbe dire. Proprio così realizza l'incarico del Sommo Sacerdote, perché il Sommo Sacerdote deve portare l'essere umano, con tutti i suoi problemi e le sofferenze, all'altezza di Dio. E la Lettera agli Ebrei dice: con tutte queste grida, lacrime, sofferenze, preghiere, il Signore ha portato la nostra realtà a Dio (cfr Eb 5,7ss). E usa questa parola greca “prosferein”, che è il termine tecnico per quanto deve fare il Sommo Sacerdote per offrire, per portare in alto le sue mani.
Proprio in questo dramma del Getsemani, dove sembra che la forza di Dio non sia più presente, Gesù realizza la funzione del Sommo Sacerdote. E dice inoltre che in questo atto di obbedienza, cioè di conformazione della volontà naturale umana alla volontà di Dio, viene perfezionato come sacerdote. E usa di nuovo la parola tecnica per ordinare sacerdote. Proprio così diventa realmente il Sommo Sacerdote dell'umanità e apre così il cielo e la porta alla risurrezione.
Se riflettiamo su questo dramma del Getsemani, possiamo anche vedere il grande contrasto tra Gesù con la sua angoscia, con la sua sofferenza, in confronto con il grande filosofo Socrate, che rimane pacifico, senza perturbazione davanti alla morte. E sembra questo l'ideale. Possiamo ammirare questo filosofo, ma la missione di Gesù era un'altra. La sua missione non era questa totale indifferenza e libertà; la sua missione era portare in sé tutta la nostra sofferenza, tutto il dramma umano. E perciò proprio questa umiliazione del Getsemani è essenziale per la missione dell'Uomo-Dio. Egli porta in sé la nostra sofferenza, la nostra povertà, e la trasforma secondo la volontà di Dio. E così apre le porte del cielo, apre il cielo: questa tenda del Santissimo, che finora l’uomo ha chiuso contro Dio, è aperta per questa sua sofferenza e obbedienza. Queste alcune osservazioni per il Giovedì Santo, per la nostra celebrazione della notte del Giovedì Santo.
Il Venerdì Santo faremo memoria della passione e della morte del Signore; adoreremo Cristo Crocifisso, parteciperemo alle sue sofferenze con la penitenza e il digiuno. Volgendo “lo sguardo a colui che hanno trafitto” (cfr Gv 19,37), potremo attingere dal suo cuore squarciato che effonde sangue ed acqua come da una sorgente; da quel cuore da cui scaturisce l’amore di Dio per ogni uomo riceviamo il suo Spirito. Accompagniamo quindi nel Venerdì Santo anche noi Gesù che sale il Calvario, lasciamoci guidare da Lui fino alla croce, riceviamo l’offerta del suo corpo immolato. Infine, nella notte del Sabato Santo, celebreremo la solenne Veglia Pasquale, nella quale ci è annunciata la risurrezione di Cristo, la sua vittoria definitiva sulla morte che ci interpella ad essere in Lui uomini nuovi. Partecipando a questa santa Veglia, la Notte centrale di tutto l’Anno Liturgico, faremo memoria del nostro Battesimo, nel quale anche noi siamo stati sepolti con Cristo, per poter con Lui risorgere e partecipare al banchetto del cielo (cfr Ap 19,7-9).
Cari amici, abbiamo cercato di comprendere lo stato d’animo con cui Gesù ha vissuto il momento della prova estrema, per cogliere ciò che orientava il suo agire. Il criterio che ha guidato ogni scelta di Gesù durante tutta la sua vita è stata la ferma volontà di amare il Padre, di essere uno col Padre, e di essergli fedele; questa decisione di corrispondere al suo amore lo ha spinto ad abbracciare, in ogni singola circostanza, il progetto del Padre, a fare proprio il disegno di amore affidatogli di ricapitolare ogni cosa in Lui, per ricondurre a Lui ogni cosa. Nel rivivere il santo Triduo, disponiamoci ad accogliere anche noi nella nostra vita la volontà di Dio, consapevoli che nella volontà di Dio, anche se appare dura, in contrasto con le nostre intenzioni, si trova il nostro vero bene, la via della vita. La Vergine Madre ci guidi in questo itinerario, e ci ottenga dal suo Figlio divino la grazia di poter spendere la nostra vita per amore di Gesù, nel servizio dei fratelli. Grazie.
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martedì 19 aprile 2011

934 - Vita di Gesù (paragrafi 114-119)

XVI Matteo

§ 114. Il primo vangelo è attribuito all'apostolo Matteo, chiamato anche Levi e già pubblicano (§ 306), da una costante tradizione che risale al principio del secolo II. Il già allegato Papia di Jerapoli, che verso l'anno 120 scrisse cinque libri di Spiegazione dei detti del Signore, affermava in essi che: Matteo in dialetto ebrai­co coordinò i detti ciascuno poi li interpretò com'era capace (in Eusebio, Hist. eccì., III, 39, 16). Altre testimo­nianze successive - quali quelle di Ireneo, di Tertulliano (Adv. Marcion., IV, 2), di Clemente Alessandrino (Stro mata, 1, 21), ecc. - confermano più o meno esplicitamente la no­tizia di Papia. E’ anche certo che tutta l'antichità cristiana, in una gran quantità di attestazioni che sarebbe inutile elencare, ha attri­buito a Matteo precisamente il primo dei nostri vangeli canonici e non un altro scritto. Che cosa esattamente afferma Papia dello scritto di Matteo? Egli dice che in esso Matteo coordinò i detti di Gesù: ossia che, non solo raccolse insieme i detti in questione. Gli antichi, infatti, badavano molto in un'opera letteraria all'”ordinamento”: secondo essi uno scrittore doveva in primo luogo provvedere al ritrovamento di un soggetto, quindi sottoporre il soggetto all'«ordinamento»; que­sto ordinamento, poi, non era sempre quello cronologico, bensì pres­so gli stessi storici era sovente l'ordinamento logico, fondato o sul­l'analogia delle varie trattazioni, o sulla congiunzione di causa ed effetto, o sull'unità di luogo e di persone, e simili. E che Papia abbia qui di mira questo ordinamento letterario, risulta da quanto egli ha detto immediatamente prima circa il vangelo di Marco (ci­teremo l'intero passo al § 128), ove afferma che Marco scrisse esat­tamente, ma non già con ordinamento; al contrario, nello scritto di Matteo egli ritrova con soddisfazione questo “ordinamento”.


§ 115. Ora, quali sono i detti contenuti nello scritto di Matteo? Etimologicamente il termine greco significa detti (sentenze, oracoli); ma particolarmente, presso scrittori giudei e cristiani, si­gnificava anche passi in genere della sacra Scrittura, che contenes­sero indifferentemente sia sentenze sia fatti. Papia stesso usa altrove il termine in questo secondo senso più ampio: nel già accennato passo ove parla del vangelo di Marco, dice che questo contiene le cose o pronunzsate o operate da Gesù; eppure, immediatamente appresso, egli designa questo complesso narrativo come detti di Gesù. Inoltre la stessa opera scritta da Papia era bensì intitolata Spiegazione dei detti del Si­gnore, ma dagli accenni e citazioni che ne rimangono risulta che essa trattava, oltreché delle sentenze, anche dei fatti di Gesù e del­l'età apostolica. Per conseguenza, non solo l'antichità cristiana, ma anche tutti gli studiosi indistintamente fino al secolo XIX inoltrato, ritennero che questi detti attribuiti da Papia a Matteo designino il primo dei nostri vangeli canonici: tanto più che di un'opera as­segnata a Matteo o ad altri Apostoli, conteneva solo sentenze di Gesù, non esiste né attestazione né traccia alcuna trasmessa dall'antichità. Se poi passiamo a confrontare questi dati, strettamente positivi, con il contenuto del nostro primo vangelo, troviamo una adeguata cor­rispondenza alle due caratteristiche rilevate da Papia: quella del­l'appellativo di detti, e quella dell'”ordinamento” letterario.

§ 116. E in primo luogo, fra i vangeli sinottici, Matteo è quello che concede il più ampio spazio alle parole di Gesù, le quali occu­pano circa tre quinti dell'intero scritto: perciò con particolare ra­gione esso poteva esser designato come una raccolta di detti, pur conservandosi a questa parola il significato usuale meno rigoroso che includeva anche la narrazione di fatti. Inoltre, la raccolta dei discorsi di Gesù ivi riferiti è stata ripartita in cinque gruppi, secondo quella norma di “ordinamento” lette­rario che stava a cuore a Papia. Il primo gruppo contiene ciò che si potrebbe definire lo statuto del regno fondato da Gesù, cioè il Discorso della montagna (Matteo, capp. 5-7); il secondo contiene le istruzioni date agli Apostoli per diffondere il regno (cap. 10); il terzo, le parabole del regno (cap. 13); il quarto, i requisiti morali per appartenere al regno (cap. 18); il quinto, il perfezionamento del regno e la sua consumazione nei fini estremi (capp. 23-25). Notevole è che ognuno di questi gruppi è preceduto da poche parole d'introduzione, ed è poi seguito da una conclusione, la quale tutte le volte è, con minime mutazioni, questa: E avvenne che, quando Gesu' ebbe terminato o questi discorsi o queste parabole, ecc. (7, 28; 11, 1; 13, 53; 19, 1; 26, 1). Notevole è anche che siffatto “ordi­namento” in cinque gruppi, certamente non fortuito, corrisponde numericamente ai cinque libri in cui Papia aveva diviso la sua opera di Spiegazione dei detti del Signore; il che potrebbe far sospettare, benché la cosa non sia punto certa, che Papia avesse seguito nella sua opera l'ordinamento da lui segnalato nello scritto di Matteo, se in essa egli si era occupato soprattutto dei discorsi di Gesù.


§ 117. L'antico pubblicano Matteo, quando mise mano a questa sua opera, era certamente uomo abituato da gran tempo a scrivere, perché senza la quotidiana scrittura non avrebbe potuto nel passato tenere in bell'ordine nel suo tavolo da gabelliere le note dei paga­menti; al contrario gli altri Apostoli, sebbene non fossero privi di lettere, dovevano avere in genere più familiarità con remi e reti da pescatori che non con pergamene e calamai da scrittori (salvo forse i due benestanti figli di Zebedeo), e ciò specialmente subito dopo la morte di Gesù quando iniziarono da soli la loro missione. Testi­moni oculari delle azioni di Gesù erano stati tutti egualmente, ma l'abilità scritturale di Matteo era un vantaggio tecnico su altri Apo­stoli, e questo dovette far sì che fosse assegnato di preferenza a lui l'incarico di mettere in iscritto la catechesi orale degli stessi Apo­stoli. Quando Matteo si mise all'opera è possibile, sebbene non dimo­strato, che già circolasse qualche scritto contenente detti o fatti di Gesù; ma anche se ciò potesse dimostrarsi, si tratterebbe certamente di saggi ancora scarsissimi sia per numero sia per contenuto, com­posti inoltre per iniziativa privata e privi d'ogni carattere ufficiale. Al contrario, l'incarico dato a Matteo rispondeva all'opportunità che la catechesi orale degli Apostoli fosse ampiamente e ufficial­mente riecheggiata in un documento scritto, ricevendone quel sus­sidio pratico che era richiesto, come vedemmo (§ 106), dalla cre­scente diffusione della buona novella. Il tipo di catechesi da met­tersi in iscritto non poté essere se non quello già collaudato dalla pratica della Chiesa, e le cui linee maestre erano state tracciate da chi aveva la sovreminenza sui banditori ufficiali della buona novel­la: fu perciò il tipo di catechesi che metteva capo a Pietro (§ 113), senza però escludere il sussidio di altri elementi provenienti dal col­legio apostolico che non entravano ordinariamente nel quadro di quella predominante catechesi. In conclusione lo scritto riassunse il pensiero dell'intero collegio apostolico, pur attenendosi alle linee principali della catechesi di Pietro.


§ 118. Un documento quale quello di Matteo, composto da un te­stimone dei fatti, garantito e sussidiato da altri testimoni, inquadrato entro le linee maestre di un insegnamento ufficiale, esteso su un'am­piezza che non fu mai più raggiunta da scritti dello stesso genere, era destinato immancabilmente ad acquistare un valore singolare. Troviamo infatti che il vangelo di Matteo, come ci viene presentato dalla concorde antichità quale primo in ordine di tempo, cosi è primo quantitativamente per impiego fattone fin dai primi tempi: basti ricordare che, da parte cattolica, Giustino martire a mezzo il secolo II impiega il nostro Matteo non meno di centosettanta volte, e che prima di lui gli antichissimi eretici Ebioniti impiegavano il solo vangelo di Matteo, a detta di Ireneo, ma probabilmente alterato.


§ 119. Tuttavia, da principio, all'impiego e all'ampia diffusione del­lo scritto di Matteo si opponeva il grave ostacolo della lingua in cui era stato composto. La notizia già comunicataci da Papia, che Mat­teo scrisse in dialetto ebraico - è in realtà confer­mata da altri antichi - quali Ireneo, Origene, Eusebio, Girolamo i quali egualmente parlano di lingua ebraica o paterna: quasi cer­tamente il termine ebraico designa qui l'aramaico (come nel con­temporaneo Flavio Giuseppe, Guerra giud., vi, 96; cfr. v, 272, 361; ecc.), giacché ai tempi di Matteo in Palestina si parlava aramaico; ad ogni modo, ebraico o aramaico che fosse, la lingua primitiva semitica era inaccessibile ai cristiani di stirpe non giudaica e anche a moltissimi altri provenienti dal giudaismo della Diaspora, i quali non conoscevano altro che il greco. Ma l'ostacolo fu superato, bene o inale, nella maniera accennata dallo stesso Papia: i detti, nel loro testo originale semitico, andarono in mano ai vari lettori e catechizzatori, ciascuno poi li inter­pretò com'era capace. Le quali parole lasciano intravedere un ampio lavorìo sorto ben presto attorno a un testo cosi opportuno e autorevole: alcuni catechizza­tori ne avranno tradotto oralmente, in maniera estemporanea, que­gli squarci che volta per volta occorrevano al loro ministero; altri avranno anche apprestato traduzioni scritte, e queste poterono essere sia parziali sia, più raramente, totali; non dovettero anche mancare scritti che, come la Spiegazione dello stesso Papia, erano piuttosto di esegesi illustrativa che di semplice traduzione. Ma l'osservazione di Papia, che ciascuno interpretò com'era capace, fa anche com­prendere che in tutto quel lavorio la buona volontà spesso non era accompagnata da un'adeguata perizia, soprattutto riguardo alla co­noscenza della lingua da cui si traduceva o anche in cui si tradu­ceva. E’ anche del tutto possibile che i molti, che nel sesto decennio del secolo I avevano gia scritto sui fatti di Gesù (§ 110), usufruissero ampiamente della composizione di Matteo, pur unendola con altri elementi desunti dalla tradizione di testimoni o di loro discepoli.
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933 - La bellezza di Cristo

 La bellezza di Cristo in croce non è in quanto ha sofferto per noi, ma nel fatto... che ha saputo trasformare tutta quella sofferenza in un atto d'amore: la croce è un invito radicale non a soffrire, ma ad amare sempre, a qualunque costo, anche a costo della vita.
L'amore sa benissimo fare a meno della sofferenza e come sul Tabor c'era solo gioia così ci sono i momenti in cui possiamo amare senza soffrire!
Ma proprio perché amare è il senso della vita, Cristo in croce ci chiede di non indietreggiare quando il Tabor è un Golgota, purché sia sempre e solo amore!
Ad ogni uomo, proprio nella debolezza della sua sofferenza, è offerta la possibilità salvifica di accogliere esistenzialmente la croce di Cristo, evento universale e salvifico, per passare come lui dalla morte alla vita, amando fino alla fine, a costo di morire! E per concludere ricordiamo nelle nostre giornate che senza di lui non possiamo far nulla perché il tralcio separato dalla vite si secca.
( Monastero Janua Coeli)
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venerdì 15 aprile 2011

932 - Vita di Gesù (paragrafi 109-113)

§ 109. Ora, fra i banditori orali della « buona novella » vi fu una classe speciale, a cui sembra che fosse affidata in modo particolare la missione di trasmettere la narrazione e testimonianza dei fatti di Gesù: per conseguenza questi particolari banditori furono designati, con termine spontaneo, come i « buoni-novellisti» ossia gli « evangelisti » (Efesi, 4, II; II Timoteo, 4, 5; Atti, 21, 8). Senza dubbio la catechesi in genere, che mirava alla edificazione e forma­zione spirituale dei credenti, era favorita indistintamente da tutti quei carismi di cui parla più volte S. Paolo esaltando la loro effi­cacia parenetica (I Cor., 12, 8-10. 28-30; 14, 26; Rom., 12, 6-8; ecc.); tuttavia il carisma dell'”evangelista”, insieme con quello del­l'”apostolo”, era all'avanguardia ed apriva la strada agli altri carismi, appunto perché gettava il primo seme della fede in Gesù e narrando la biografia di lui. Ecco pertanto come la missione degli « evangelisti » è descritta da Eusebio: Essi avevano il primo ordine nella successione degli apo­stoli. Essendo discepoli meravigliosi di tali maestri, essi costruivano sopra i fondamenti delle chiese che erano stati dapprima gettati in ogni luogo dagli apostoli, dilatando sempre piu' il messaggio ) e disseminando la salutare semenza del regno dei cieli in largo su tutta la terra... Usciti di patria, compivano l'opera di evangelisti ansiosi di bandire il messaggio a coloro che non avevano udito affatto nulla della parola della fede e di trasmettere la scrit­tura dei divini vangeli. Essi, dopo aver gettato solo i fondamenti della fede in taluni luoghi stranieri, vi stabilivano altri pastori ai quali affidavano la cura di coloro ch'erano stati testé introdotti: di nuovo, poi, si trasferivano in altre contrade e nazioni con la grazia e cooperazione di Dio (Hist. eccl., III, 37). Questa descrizione è opportunamente provocata dalla menzione di Filippo, che è il solo « evangelista » nominato nel Nuovo Testamento (Atti, 21, 8) e che difatti aveva evangelizzato Samaria (Atti, 8, 5 segg.) e altre regioni (Atti, 8, 40).

§ 110. Con ciò siamo penetrati in quella miniera da cui estrassero i loro materiali quei molti scrittori che, come vedemmo sopra (§ 106), avevano composto narrazioni dei fatti di Gesù già nel sesto decen­nio del secolo I, e la cui opera fu o contemporanea o anche par­zialmente anteriore alla composizione dei vangeli canonici. Quella grande miniera comune si chiama « catechesi »; e la catechesi sen­za dubbio era sostanzialmente unica, sebbene potesse venir presen­tata sotto forme o tipi alquanto differenti che mettessero capo ai vari e più autorevoli banditori della «buona novella». D'altra parte la Chiesa primitiva non si è curata di tutti indistinta­mente i molti scritti apparsi lungo il secolo I, ma solo di quattro fra essi: degli altri si è disinteressata, e perciò sono andati perduti, men­tre i quattro prescelti divennero le quattro colonne basilari dell'edi­ficio della fede. Ad essi soli la Chiesa attribui un valore di storio­grafia ufficiale; in essi ella riconobbe l'ispirazione di Dio, e perciò li incluse nell'elenco di Scritture sacre chiamato Canone: sono ap­punto i quattro vangeli canonici, ossia le quattro « Buone novelle» del Nuovo Testamento. Ma la Chiesa non perse mai di vista l'o­rigine unitaria dei suoi quattro vangeli. Se gli scritti erano quattro, la fonte era una sola, cioè la catechesi. Onde, con perfetta aggiu­statezza storica, nel secolo Il Ireneo parla di un solo vangelo qua­driforme, come nel secolo seguente Origene afferma che il vangelo, certamente attraverso quattro, e' uno solo, ai quali, ancora nel secolo IV, fa eco S. Agostino parlando dei quattro libri d'un solo vangelo.

§ 111. E dell'antico sentimento della Chiesa circa questa comune origine dei quattro vangeli si ha una riprova nei titoli sotto cui essi sono giunti fino a noi. I titoli suonano in greco Marco, Luca, Giovanni, le quali espressioni si trovano trasportate di peso in latino da scrittori del secolo II, come Cipriano, e da antichi codici latini, ove si legge cata Matteo, cata Marco, ecc., pur conservandosi il significato originario di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questi titoli non provengono certo dai rispet­tivi autori, benché designino coloro che secondo la tradizione erano gli autori; ad ogni modo negli antichi codici il titolo di Vangelo si trovava originariamente una sola volta, cioè in cima alla colle­zione di tutti e quattro insieme, mentre in cima ai singoli si trovava il rispettivo titolo di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questa norma pratica fu dettata dall'idea che il Vangelo era in realtà uno solo, quello estratto dalla catechesi, sebbene tale unità apparisse sot­to quattro forme, quella secondo Matteo, quella secondo Marco, ecc. I precedenti rilievi sono della massima importanza per comprendere quale fosse per i cristiani la vera base su cui poggiava l'autorità storica dei vangeli. Quella base era l'autorità della Chiesa, della cui catechesi era genuino e diretto prodotto l'unico quadriforme van­gelo. I singoli autori delle quattro forme del vangelo in tanto vale­vano, in quanto erano rappresentanti della Chiesa, dalla cui autorità essi erano adombrati ma credendo ai quattro autori, il cristiano credeva in realtà all'unica Chiesa, mentre se attraverso ad essi il cristiano non fosse potuto giungere fino alla Chiesa, non avrebbe creduto al loro vangelo. Tutto ciò è espresso nitidamente da S. Agostino col suo celebre aforisma: Ego vero evangelio non crede­rem, nisi me catholic Ecclesia' commoveret auctoritas (Contra epist. Manich., v, 6). In conclusione, il processo storico dell'origine dei vangeli fu il se­guente. La “buona novella” orale fu più antica e più ampia della « buona novella » scritta: l'uno e l'altra furono produzioni della Chiesa, e dall'autorità di questa furono adombrate. Il che equivale a dire che il vangelo scritto presuppone la Chiesa e si basa su essa.

§ 112. Questa conclusione è in assoluto contrasto con l'antico con­cetto che la Riforma luterana si fece dei vangeli canonici, e taluno potrebbe forse sospettare che sia una conclusione ispirata da mire polemiche più che fondata sulla pura documentazione storica. Se­nonché alla stessa conclusione sono giunti recentemente anche stu­diosi che, non solo non hanno alcuna preoccupazione di apologia cattolica, ma sono invece seguaci dei metodi più radicali e più de­molitori riguardo alla critica dei vangeli. Basterà riportare il giu­dizio di uno solo fra essi: In seguito alla fissazione del canone del Nuovo Testamento alla fine del secolo II si fini per dimenticare che i nostri Vangeli hanno una preistoria importantissima e che bisogna collocarli, non già all'inizio, ma al termine di un lungo processo anteriore. Perciò nella sua nozione della tradizione il cattolicismo si e' sempre guardato da una considerazione esagerata ed esclusiva della lettera scritta... Con la Riforma il nostro concetto sull'origine dei Vangeli venne falsato. La Riforma tirò le ultime conseguenze dalla canonizzazione del Nuo­vo Testamento, facendo dell'ispirazione verbale il suo dogma essen­ziale. Mentre il cattolicismo non dimenticò mai completamente che la tradizione precede la Scrittura, i teologi sorti dalla Riforma non tennero piu' alcun conto del fatto che, fra l'epoca in cui e' vissuto Gesù e quella della composizione dei Vangeli, corre ”Vita di Ge­su'” scritta. E’ strano rilevare che proprio i teologi piu' liberali della seconda metà del secolo XIX hanno subito inconsciamente l'influenza della teoria dell'ispirazione verbale, non badando che alla lettera scritta, senza preoccuparsi dell'importante periodo in cui il Vangelo non esisteva che sotto forma di parola viva; in Revue d'histoire et de philosophie relig., 1925, pagg. 459-460).

§ 113. Di quale ampiezza, e anche di quale particolare indole, fos­sero gli scritti andati perduti fra i molti che circolavano lungo il sesto decennio del secolo I, non possiamo dire con sicurezza. E’ ben verosimile che in massima parte fossero d'ampiezza assai limitata, minore anche di quella di Marco che è il più breve dei nostri van­geli. Quanto all'indole, dovevano essere di tipo vario: pur trattando tutti della vita di Gesù, taluni potevano occuparsi specialmente dei fatti, altri specialmente degli insegnamenti e delle parole; tra gli scritti sui fatti, chi prendeva di mira specialmente il ministero in Galilea, chi il ministero in Giudea, chi gli avvenimenti della passio­ne e morte, qualcuno anche i fatti dell'infanzia precedenti al ministero pubblico; tra gli scritti sugli insegnamenti, uno preferiva le parabole, un altro i comandamenti fondamentali della nuova Legge (quali si ritrovano nel Discorso della montagna), un terzo le profezie sulla fine di Gerusalemme e del mondo intero, e così' di seguito. Riscontriamo, pertanto, che questi elementi sparsi si ritrovano tutti complessivamente nei nostri tre primi vangeli chiamati Sinottici (Gio­vanni, sotto questo aspetto, fa parte a sé), come pure troviamo che i Sinottici alla loro volta mostrano una trama generica comune. Le linee costanti di questa trama sono: il ministero di Giovanni il Bat­tista e il battesimo di Gesù; il ministero di Gesù in Galilea; il mi­nistero di Giudea; la passione, morte e resurrezione. A queste linee costanti può esser premessa la narrazione, più o meno ampia, dei fatti dell'infanzia, come in Matteo e Luca: ad ogni modo tale nar­razione serve quasi da preambolo alla trama costante, mentre il vero corpus del racconto comincia col ministero di Giovanni il Battista. Pronunciando queste parole (Atti, 1, 21-22), sembra che Pietro abbia delineato un programma generico; egli stesso mostra di attenersi a tale programma, giacché in un suo di­scorso segue sommariamente le quattro linee della suddetta trama, incipiens a Galilea post baptismum quod predicavit Joannes e fi­nendo con le apparizioni di Gesù dopo la resurrezione (Atti, 10, 37-41). Siffatta corrispondenza fra il programma e l'azione di Pietro (cfr. anche Atti, 2, 22-24), e inoltre il posto sovreminente da lui te­nuto fra i primissimi banditori della “buona novella”, rendono legittima la supposizione che appunto a Pietro risalga la trama di quella catechesi le cui linee generali si ritrovano complessivamente seguite dai nostri tre primi vangeli, come dovevano esser seguite isolatamente dal più dei molti scritti andati perduti. Chi fossero poi gli autori degli scritti perduti, noi non sappiamo affatto. Poterono benissimo appartenere al numero di coloro ch'e­rano insigniti dal carisma dell'”evangelista”; taluno poté anche es­sere testimone personale dei fatti narrati, in quanto era stato disce­polo immediato di Gesù morto un ventennio prima: tuttavia dal confronto di Luca, 1, 1 con 1, 2, sembra risultare una contrappo­sizione tra scrittori e testimoni, per cui i primi dipenderebbero dai secondi e non sarebbero - almeno nella maggioranza - testimoni essi stessi. Quanto agli autori dei vangeli canonici, e al tipo di catechesi da cui ciascuno di essi dipende, non resta che ricercare le testimonianze della tradizione, passando cosi dal periodo di preparazione a quello di composizione dei quattro vangeli.
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mercoledì 13 aprile 2011

931 - Udienza del 13/4/2011 (la santità)

Cari fratelli e sorelle,

nelle Udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti Santi e Sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I Santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla Fonte e dal Capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del Popolo di Dio” (Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium 50).
Al termine di questo ciclo di catechesi, vorrei allora offrire qualche pensiero su che cosa sia la santità.
Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo?
Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo, invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: “In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E parla di noi tutti. Al centro del disegno divino c’è Cristo, nel quale Dio mostra il suo Volto: il Mistero nascosto nei secoli si è rivelato in pienezza nel Verbo fatto carne. E Paolo poi dice: “E’ piaciuto infatti a Dio che abiti in Lui tutta la pienezza” (Col 1,19).
In Cristo il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità (cfr Gv 1,14-16). Perciò, tutta l’esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù.
La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti.
La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. E’ l’essere conformi a Gesù, come afferma san Paolo: “Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29). E sant’Agostino esclama: “Viva sarà la mia vita tutta piena di Te” (Confessioni, 10,28). Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa, parla con chiarezza della chiamata universale alla santità, affermando che nessuno ne è escluso: “Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria” (n. 41).
Ma rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze?
La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma. Per dirlo ancora una volta con il Concilio Vaticano II: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta” (ibid., 40).
La santità ha dunque la sua radice ultima nella grazia battesimale, nell’essere innestati nel Mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione “con”: con-morti, con-sepolti, con-risucitati, con-vivificati con Cristo; il nostro destino è legato indissolubilmente al suo. “Per mezzo del battesimo - scrive - siamo stati sepolti insieme con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Ma Dio rispetta sempre la nostra libertà e chiede che accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta, chiede che ci lasciamo trasformare dall’azione dello Spirito Santo, conformando la nostra volontà alla volontà di Dio.
Come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità?
Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. “«Dio è amore; chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Ora, Dio ha largamente diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità, come un buon seme, cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l'aiuto della sua grazia, compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all'Eucaristia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all'abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all'esercizio di ogni virtù. La carità infatti, vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr Col 3,14; Rm 13,10), dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Forse anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po' troppo solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice.
Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell'Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l'esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni. Mi sembra che questa sia la vera semplicità e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato, che sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo” (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della vita cristiana, dell'essere santi.
Ecco perché sant’Agostino, commentando il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”. E continua: “Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; vi sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” (7,8: PL 35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore. Così vale questa parola grande: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”.
Forse potremmo chiederci: possiamo noi, con i nostri limiti, con la nostra debolezza, tendere così in alto? La Chiesa, durante l’Anno Liturgico, ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i Santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi. In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono “indicatori di strada”, ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità.
Nella comunione dei Santi, canonizzati e non canonizzati, che la Chiesa vive grazie a Cristo in tutti i suoi membri, noi godiamo della loro presenza e della loro compagnia e coltiviamo la ferma speranza di poter imitare il loro cammino e condividere un giorno la stessa vita beata, la vita eterna.
Cari amici, come è grande e bella, e anche semplice, la vocazione cristiana vista in questa luce! Tutti siamo chiamati alla santità: è la misura stessa della vita cristiana. Ancora una volta san Paolo lo esprime con grande intensità, quando scrive: “A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,7.11-13). Vorrei invitare tutti ad aprirsi all’azione dello Spirito Santo, che trasforma la nostra vita, per essere anche noi come tessere del grande mosaico di santità che Dio va creando nella storia, perché il volto di Cristo splenda nella pienezza del suo fulgore. Non abbiamo paura di tendere verso l’alto, verso le altezze di Dio; non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore. Grazie.
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domenica 10 aprile 2011

930 - Vita di Gesù (paragrafi 105-108)

XV I Vangeli

§ 105. La parola “evangelo” significò originariamente la ricompensa data a un messaggero che rechi una buona novella, o anche la buona novella in se stessa; il cristianesimo, fin dai suoi primi tempi, impiegò questa parola per designare la piu' importante e preziosa “buona novella”, quella annunziata da Gesù all'inizio del suo ministero, allorché venne Gesu' nella Galilea annunziando la “buona novella” d'iddio e dicendo: Si è compiuto il tempo e si è avvicinato il regno d'iddio; pentitevi e credete nella “buona novella” (Marco, 1, 14-15). Quindi, la “buona novella” annunziata in principio da Gesù fu essenzialmente questa: Si e' avvicinato il regno di Dio. Ma a questo primo annunzio segui uno sviluppo, il quale tradusse in atto il contenuto della “buona novella” mediante gli insegna­menti, la vita e la morte redentrice di Gesù. Quindi, a tutto questo complesso di fatti che costituivano la salvezza apprestata da Gesù al genere umano fu in seguito applicata la designazione di “buona novella”, in quanto era annunzio della salvezza già attuata e com­piuta. In questo senso S. Paolo si presenta come ministro... della “buona novella” (Colossesi, 1, 23; ecc.), in corrispondenza all'e­spressione usata dal suo discepolo Luca, che parla di inservienti della parola (Luca, 1, 2); egualmente in questo senso fu scritto in prin­cipio ad uno dei vangeli canonici: inizio della “buona novella”di Gesu' Cristo (Marco, 1, 1).

§ 106. Quest'ultimo esempio già prelude ad un'applicazione ulte­riore che ricevette più tardi la parola. Per alcuni anni dopo la morte di Gesù la diffusione della “buona novella” avvenne in maniera esclusivamente orale; il quale metodo era quello stesso seguito da Gesù, che aveva soltanto parlato senza lasciare alcun scritto, ed era anche conforme a quello dei dottori giudaici contemporanei, le cui sentenze furono tramandate oralmente ancora per molto tempo fino a quando furono messe in iscritto neI Talmud (§ 87). Era il metodo chiamato dai cristiani “catechesi”, ossia “risonanza” perché con­sisteva nel “far risonare” (greco katecheo) la voce alla presenza dei discepoli; di guisa che il discepolo, che avesse compiuta la sua istru­zione, era il “risonato”, ossia il “catechizzato” (Galati, 6, 6; Luca, 1 4; Atti, 18, 25). Senonche la rapida e vasta diffusione della “buo­na novella” non poteva permettere, praticamente, che questa re­stasse affidata per lungo tempo soltanto alla viva voce. Lo sprigio­narsi della “buona novella” dalla Palestina e dal mondo giudaico; il suo penetrare in regioni d'altri linguaggi, come nella Siria, nell'Asia Minore e fino in Italia e a Roma; il suo irrompere nelle accademie e negli altri cenacoli del mondo greco­romano; e infine l'effettuarsi di questa avanzata trionfale nel giro di pochi anni, richiesero entro bre­ve tempo che la viva voce fosse corroborata dallo scritto per raggiun­gere più facilmente e più efficacemente nuove mete. Sappiamo infatti che, già lungo il sesto decennio del secolo I, circolavano scritti con­tenenti la “buona novella”, e che tali scritti erano molti (Luca, 1, 1-4). Questo nuovo sussidio, fornito al diffondersi del messaggio cristiano, fu come una seconda strada aperta parallelamente alla prima: da allora la “buona novella” s'avanzò su ambedue le stra­de, la catechesi risonante e la catechesi scritta. Ciò appunto spiega l'ulteriore applicazione che ricevette la parola. Da questo tempo “buona novella” fu, non soltanto l'annunzio del­la salvezza umana, ma anche lo scritto che conteneva quell'annun­zio: il contenente fu designato col nome del contenuto, cioè fu chiamato “vangelo”. Ad ogni modo, anche se la “buona novella” orale aveva perduto la sua sonorità materiale diventando vangelo scritto, l'una e l'altro rimanevano in sostanza una catechesi: non altramente le orationes di Cicerone, essenzialmente orali, rimasero orationes anche quando circolarono in iscritto.

§ 107. E’ però di somma importanza rilevare che la “buona no­vella” scritta non pretese mai né di soppiantare né di sostituire adeguatamente la “buona novella” orale; e ciò, oltreché per altre ragioni morali, anche perché la “buona novella” orale era molto ricca e conteneva assai più elementi di quella fissata in iscritto. Abbiamo su questo proposito una preziosa testimonianza di Papia di Jerapoli, il quale, scrivendo verso l'anno 120, afferma di aver ricer­cato ansiosamente ciò che avevano insegnato di viva voce gli Apo­stoli e gli altri discepoli immediati di Gesù, ch'egli nomina indivi­dualmente, apportando infine questa ragione: Giudicavo infatti che le cose contenute nei libri non mi avrebbero giovato tanto, quanto le cose (comunicate) da una voce viva e permanente (in Eusebio, Hist. eccl., III, 39, 4). E parlando di libri e di voce allude indub­biamente alle fonti della vita e della dottrina di Gesù, perché poco dopo tratta espressamente dei vangeli di Marco e di Matteo. Presso gli scrittori cristiani del secolo II l'uso del termine « vange­lo » è ancora promiscuo. Talvolta conserva il senso più antico, e perciò designa la « buona novella » in sé, ossia la salvezza umana operata da Gesù, come si ritrova ancora presso Ireneo (Adv. har., iv, 37, 4); ma già lo stesso Ireneo (ivi, III, lì, 8; ecc.); e anche prima di lui Giustino (Apol., I, 66), impiegano il termine per designare determinati scritti, cioè i nostri vangeli. Anche l'eretico Marcione, verso il 140, prefisse il titolo di « vangelo » al suo scritto derivato dal terzo dei vangeli canonici ed accomodato conforme alle dottrine di lui (Tertulliano, Adv. Marcion., iv, 2).

§ 108. Qual era il primo e principale argomento della catechesi, orale o scritta che fosse? Su ciò non può esservi dubbio. Se la fede cristiana aveva per suo fondamento la persona di Gesù, il primo passo sulla strada di questa fede doveva necessariamente essere la conoscenza dei fatti di Gesù; ci viene infatti attestato esplicitamente che si cominciava con l'istruirsi o con l'istruire sulle cose riguardo a Gesìi (Atti, 18, 25; cfr. 28, 31) come pure ci vengono occasional­mente comunicati brevi abbozzi di catechesi che comprendono ap­punto i fatti di Gesù (Atti, 1, 22; 2, 22 segg.; 10, 37 segg.). E in realtà un cristiano non sarebbe stato cristiano se non avesse saputo che cosa aveva fatto il Cristo, ossia Gesù, quali dottrine aveva insegnate, quali stabili riti aveva istituiti, quali prove avevano dimo­strato l'autorità della sua missione, insomma se non possedeva una notizia almeno sommaria della biografia di lui: senza questa notizia la « buona novella » non poteva diffondersi, giacché gli uomini co­me invocherebbero colui nel quale non credettero? e come crede­rebbero in colui che non udirono? e come udirebbero senza un ban­ditore? (Romani, 10, 14)
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venerdì 8 aprile 2011

929 - Omelia del 10/4/2011 5^ domenica quaresima

il ritorno alla vita di Lazzaro

Il testo di questa domenica quinta di quaresima è denso.

Si parla di risurrezione di Lazzaro, ma sarebbe meglio dire rianimazione o ritorno alla vita.
Solo Gesù è sempre in scena.
In sequenza incontra i discepoli, Marta, Maria e i Giudei.
Infine vi è il dialogo tra Gesù e il Padre e la presenza di Lazzaro ritornato alla vita.
Nella prima parte, Gesù viene a sapere della grave malattia dell'amico Lazzaro.
Però non interviene. Aspetta due giorni.
Poi, nonostante l'opposizione dei discepoli preoccupati per la sua sorte, decide di tornare in Giudea o, meglio, di tornare da Lazzaro. Appena arrivato al villaggio, Gesù incontra Marta. Gesù la invita a credere nella risurrezione dei morti, che non avverrà solo alla fine dei tempi, ma anche ora.
Chi crede in Gesù vivrà per sempre.
Marta, così, riconosce in Gesù il Figlio di Dio che viene nel mondo.
Poi Gesù, prima di andare al sepolcro, incontra anche Maria.
Maria si getta ai suoi piedi. Gesù freme, si turba e versa lacrime.
Freme perchè è sconfortato di fronte alla tragica morte dell'amico.
Si turba interiormente, come nella passione quando dice che la sua anima è turbata.
E' un atteggiamento interiore, mentre a livello esteriore i giudei constatano le lacrime.
Sono le lacrime di Dio dinanzi alla morte che separa gli esseri.
Di fronte a un tale modo di agire, alcuni giudei reagiscono riconoscendo il grande amore che Gesù nutriva per Lazzaro.
Altri invece lo rimproverano poichè poteva agire prima, come nel caso del cieco nato.
Gesù giunge al sepolcro. Invita Marta a confidare nella gloria di Dio che è la fede.
Gesù si rivolge al Padre, poichè sa che sarà esaudito. Grida con voce forte e chiama Lazzaro. Il morto esce con le bende e coperto da un sudario.
Quando risorgerà Gesù, avverrà esattamente il contrario.
Lazzaro esce, ma è muto. Non dice nulla di ciò che ha vissuto.
Il centro di questo testo è il cammino di Gesù verso la morte e risurrezione.
Gli stessi giudei appaiono come i testimoni del prodigio che Gesù ha operato.
In questo testo, traspare la profonda umanità di Gesù.
Piange per la morte di una persona cara come faremmo noi.
Gesù nella fedeltà al progetto del Padre, sa che Dio è più grande della morte e può far tornare alla vita, almeno per un po' di tempo, Lazzaro.
Per Gesù, la vita è un continuo appello alla fede, a credere e convertirsi, mentre la morte è apertura al compimento della vita.
La vita vissuta in pienezza non è un possesso geloso delle cose, ma è vivere nella fede un'esistenza nel dono e nella condivisione.
La comunità cristiana è proprio il luogo in cui vive o dovrebbe vivere l'uomo nuovo e dove si indica all'uomo che la morte non è la fine, ma è il compimento della nostra esistenza verso la vita eterna.
Don Luigi-------------

928 - Vangelo del 10/4/2011 Domenica 5^ Quaresima


Io sono la risurrezione e la vita


+ Dal Vangelo secondo Giovanni (11,1-45) In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».


All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».
Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio d! i Dio, colui che viene nel mondo».
Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.
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Medaglia di San Benedetto