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giovedì 6 settembre 2012

1783 - Vita di Gesù (paragrafi 503-507)


LA SETTIMANA DI PASSIONE. LA DOMENICA E IL LUNEDÌ

L'ingresso trionfale in Gerusalemme

§ 503. A Gerusalemme si riseppe subito che Gesù era giunto a Be­thania; il suo arrivo colà poté essere comunicato tanto da pellegrini, i quali nel venerdì avessero fatto il viaggio da Gerico a Bethania in­sieme con lui (§ 501), quanto da spie del Sinedrio le quali ottem­perassero all'ordine emanato da quel consesso di segnalare ove si trovasse Gesù (§ 495). La notizia fece impressione in città. Forse anche prima che il riposo sabbatico cominciasse, e certamente appena esso fu terminato, molti curiosi corsero da Gerusalemme a Bethania, spinti dal doppio motivo di vedere sia Gesù che Lazaro, l'uno vicino all'altro, tanto più che il primo non s'era più lasciato vedere in città dopo la resurrezione del secondo. Riseppe pertanto la gran folla dei Giudei che (Gesù) e' lì, e vennero non per Gesu' solo ma anche per vedere Lazaro, che (egli) aveva risuscitato dai morti. Durante questa affluenza si ripeté più am­piamente quel che era avvenuto subito dopo la resurrezione di La­zaro, cioè che molti si arresero all'evidenza del miracolo e credettero in Gesù. Anche questo risultato fu subito risaputo in Gerusalemme; e allora i sommi sacerdoti, confermandosi nel proposito di mettere a morte Gesù, per giunta deliberarono di uccidere anche Lazaro (Giovanni, 12, 10), inviando così di nuovo all'altro mondo quel testi­monio che ne era tornato per scandalizzare l'ortodossia giudaica. Certamente il rimedio era, o sembrava, decisivo: uccisi Gesù e La­zaro, la commozione suscitata tra il popolo dal predicatore Galileo si sarebbe senz'altro calmata. Ma l'esecuzione del progetto era resa dif­ficile, oltreché dall'affluenza dei pellegrini pasquali, anche dalla com­mozione popolare, da cui potevan sorgere reazioni violente e compli­cazioni con l'autorità romana che si volevano evitare ad ogni costo. Comincia perciò da questo momento un periodo di vigile attesa in cui le autorità del Tempio tengono continuamente d'occhio Gesù, finché si presenti una circostanza favorevole per eseguire il loro progetto senza fastidiose conseguenze; dal canto suo Gesù prosegue nella linea di condotta tracciatasi indipendentemente dalle circostanze esteriori, e come non paventa le mene del Sinedrio, così non cura il fa­vore delle folle, sebbene da queste egli sia momentaneamente protet­to. Durante questa attesa, la prima mossa è fatta da Gesù che, re­candosi direttamente verso il pericolo, parte da Bethania alla volta di Gerusalemme. 

§ 504. Era la mattina della domenica. A Bethania in quel mattino e nella sera precedente s'erano radunati attorno a Gesù molti fervo­rosi, sia conterranei della Galilea giunti in pellegrinaggio pasquale, sia cittadini di Gerusalemme testé convinti dal miracolo di Lazaro: ed era una folla vibrante, che non poteva trattenersi da qualche ma­nifestazione solenne in onore di Gesù. Anche le circostanze si presen­tavano propizie, giacché era abitudine che i cittadini uscissero incon­tro ai gruppi di pellegrini più numerosi o importanti, e tutti uniti entrassero in città fra canti e manifestazioni di gioia; quando dun­que il maestro avesse manifestato l'intenzione di riprendere il cam­mino per Gerusalemme, era più che giusto preparargli un solenne ingresso nella città: anche se egli si fosse mostrato riluttante come nel passato, la manifestazione solenne era necessaria questa volta do­po i fatti di Bethania e di Gerusalemme, ed il maestro avrebbe do­vuto tollerarla suo malgrado. E invece, contro ogni previsione, Gesù questa volta non si mostrò riluttante. Manifestata l'intenzione di recarsi a Gerusalemme quella mattina stessa, egli scelse la strada più breve e frequentata la quale da Bethania risaliva sul monte degli Olivi, ne discendeva lungo il versante occidentale, e infine si congiungeva con la città presso l'angelo nord-orientale del Tempio dopo un percorso di circa 2.800 metri (§ 490); lungo questo percorso si passava vicino all'antico villaggio chiamato Bethphage, “casa dei fichi [immaturi]”, ch'è considerato dal Talmud già come sobborgo di Gerusalemme, e stava certamente vicino al luogo ch'è ritenuto oggi come Behphage ed è situato a meno di un chilometro a nord-ovest di Bethania. Partita da Bethania la comitiva risaliva festosa verso la sommità del monte degli Olivi ed era già in vista di Bethphage, quando Gesù dette un ordine che colmò di gioia tutti i presenti; chiamati due dei suoi di­scepoli, disse loro: Andate al villaggio che vi sta dirimpetto e su­bito entrativi troverete un asinello legato sul quale nessun uomo se­dette giammai; scioglietelo e conducete(lo). E se alcuno vi dica:”Perché fate questo?” dite:”Il Signore ne ha bisogno, e subito lo manda di nuovo qui”. L'asino era in Palestina la cavalcatura delle persone autorevoli fin dai tempi di Balaam (Numeri, 22, 21 segg.), e Gesù ricercando in questa occasione tale cavalcatura mostrò di voler assecondare i festosi desideri della comitiva, che ne fu felicissima. Ma la mira di Gesù era anche più lontana; Matteo, nella sua speciale cura di rilevare l'avveramento delle profezie messianiche, fa notare che allora s'adem­pila predizione dell'antico profeta Zacharia (9, 9), secondo cui il re di Sion sarebbe venuto a lei mansueto cavalcando un asina e un asinello: i perciò anche il solo Matteo ricorda che là, a Bethphage, nel luogo indicato da Gesù stavano legati l'asinello e sua madre e che ambedue furono recati a Gesù, mentre gli altri evangelisti menziona­no soltanto l'asinello sul quale effettivamente cavalcò Gesù. I due discepoli eseguirono l'ordine; mentre scioglievano i due animali, i padroni ne richiesero la ragione, e udito che servivano a Gesù non replicarono: probabilmente erano persone amiche della famiglia di Lazaro, e quindi benevole verso Gesù. All'arrivo dei due animali la comitiva non si contenne più. Con quel­la cavalcatura si poteva compiere un vero ingresso trionfale nella città; se l'asinello non aveva ancora servito da cavalcatura a nessu­no, tanto più era indicato a trasportare per la prima volta una per­sona sacra come Gesù, giacché agli antichi sembrava che un ani­male già adibito a servizi profani fosse meno atto ad usi religiosi. Il corteo fu subito composto. Alcuni gettarono i loro mantelli sul­l'asinello a guisa di sella e di gualdrappa, e poi vi fecero salire Gesù; altri, correndo un poco sul davanti, stendevano di tratto in tratto i mantelli sul suolo affinché il cavalcatore vi passasse sopra come su tappeti; moltissimi altri accorrevano lungo la strada man mano che il corteo si avvicinava alla città, gettavano frasche verdi lungo il percorso e agitavano festosi rami di palme staccati dagli alberi dei dintorni: tutti poi gridavano alla rinfusa: Osanna! Benedetto il Veniente in nome del Signore! Benedetto il veniente regno del nostro padre David! Osanna negli eccelsi (Marco, 11, 9-1 0).

§ 505. La focosità orientale divampava pienamente in queste grida: ma vi divampava anche la spasmodica attesa che quegli osannanti avevano conservata e repressa nei loro cuori per tanto tempo, l'attesa del regno messianico. I termini impiegati sono tipici: il Veniente in nome del Signore è il Messia (§ 339), e il veniente regno di David è il regno messianico che è inaugurato dal Messia figlio di David. Le insegne di questo inizio di regno erano certamente modestissime, un asinello e quattro rami di palma; ma in ciò non trovavano scandalo quegli entusiasti, i quali erano fermamente sicuri che da un giorno all'altro l'asinello sarebbe stato sostituito da falangi di superbi destrieri e le palme da una selva di ben polite lance. Il padre David dal suo sepolcro e il Dio Jahvè dal cielo avrebbero compiuto questo miracolo in favore del loro Messia. Precisamente questo è il punto ove s’incontrarono, in maniera fugace e quasi fortuita, il messianismo delle plebi e quello di Gesù. Per le plebi quell'ingresso trionfale in Gerusalemme doveva essere la prima favilla d'un immenso incendio futuro: per Gesù era la sola ed unica pompa ufficiale della sua regalità messianica. Quella regalità, da lui nascosta con tanta cura e confidata con tante precauzioni e rettiliche solo ai suoi più intimi, doveva pure essere manifestata ufficialmente almeno una volta, adesso che il tempo stringeva e che l'erronea in­terpretazione politica aveva scarse probabilità d'attecchire; ebbene, questa appunto valeva come manifestazione ufficiale e solenne e in corrispondenza dell'antica profezia di Zacharia, ma tutto sarebbe finito lì, in quell'asinello contornato da qualche centinaio di osannan­ti: subito dopo, tutto sarebbe rientrato in ciò che gli uomini chia­mavano ombra, ma che per il regno di Dio era notte d'operosità re­condita (§ 369). Gesù, insomma, finiva dove le plebi credevano di cominciare. Un quarantennio più tardi un Giudeo rinnegato, Flavio Giuseppe, impiegherà lunghe pagine per descrivere un altro ingresso trionfale a cui aveva assistito egli stesso (Guerra giud., VII, 120-162), come gli evangelisti a quello di Gesù; senonché le due narrazioni sembrano scritte apposta per contrapporsi l'una all'altra. Quella del Giudeo rinnegato descrive il trionfo di chi ha distrutto poco prima Gerusa­lemme, ed entra nella Roma pagana fra un apparato d'incredibile splendore e potenza; la narrazione degli evangelisti descrive il trion­fo di chi sarà il distruttore della Roma pagana, e adesso entra in Ge­rusalemme fra un apparato umilissimo e piangendo sulla prossima distruzione di questa città. Il trionfatore di Roma conclude la sua pompa uccidendo ai piedi del Campidoglio il condottiero dei nemici, trascinato in catene dietro al corteo: il trionfatore di Gerusalemme finisce con l'essere ucciso lui stesso, dopo il suo trionfo d'un giorno. A Roma, dopo i festeggiamenti, si gettano le fondamenta di un nuovo tempio idolatrico dedicato alla Pace romana; a Gerusalemme si annunzia che il Tempio manufatto del Dio vivente sarà ridotto a un cumulo di macerie, e si gettano invece le fondamenta di un Tem­pio non manufatto (Marco, 14, 58) ove si adorerà il Dio vivente in spirito e verita' (§ 295). Esiste tuttavia un punto importantissimo in cui le due narrazioni, così discordi, concordano, ed è nell'affermare che il rispettivo trionfatote è il Messia per gli evan­gelisti il Messia è Gesù, il carpentiere di Nazareth; per il Giudeo rinnegato il Messia è Tito Flavio Vespasiano, agricoltore nato a Fala­crine presso Rieti l'anno 9 dopo Cr. (§ 83). Confrontando oggi ciò che rimane dei due trionfi bisogna concludere che il Giudeo, mal consigliato dalla sua apostasia, è caduto in un grave errore.

§ 506. Sebbene umilissimo il trionfo di Gerusalemme fu cordiale, certamente più di quello di Roma. Giovanni (12, 16 segg.) c'informa che la cordialità fu grande anche da parte di quei cittadini di Ge­rusalemme i quali erano stati testimoni della resurrezione di Lazaro o ne avevano udito il racconto dai testimoni; la cordialità dei disce­poli senza dubbio era egualmente grande, tuttavia era animata da motivi superficiali e ignara delle ragioni profonde di ciò che avveni­va, perché a detta dello stesso evangelista queste cose i suoi discepoli non conobbero dapprima; ma quando Gesu' fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui e queste cose (essi) fecero a lui. Insomma, l'entusiasmo dei discepoli era troppo sotto l'influenza dell'entusiasmo delle folle per assurgere a conside­razioni più alte e più spirituali circa quel brevissimo trionfo umano del loro maestro. Ma il carattere trionfale della manifestazione fu difeso fermamence da Gesù stesso. Poiché i Farisei rimanevano sempre Farisei anche in mezzo all'entusiasmo generale, e d'altra parte vedevano bene che sarebbe stato troppo pericoloso dar sulla voce a quella folla infervc­rata, alcuni di essi pensarono di ricorrere a Gesù stesso e gli dissero: Maestro, sgrida i tuoi discepoli! quasicché gli artefici più numerosi di quella manifestazione fossero i discepoli e non piuttosto i Giudei testimoni della resurrezione di Lazaro. Ma Gesù risponde: Vi dico, se questi taceranno, le pietre grideranno (Luca, 19, 40). La protesta fu rinnovata di lì a poco quando, entrato Gesù nel Tem­pio, frotte di fanciulli accorsi tra la calca si dettero a gridare: Osan­na al figlio di David! sotto il naso dei sommi sacerdoti e degli Scribi. Queste degnissime persone, irritate dalle grida di quei mocciosi, pro­testarono verso Gesù: Senti che dicono costoro? Questa volta Gesù rispose: Si. Non leggeste mai (quel passo) “Da bocca di bambini e di lattanti esprimesti laude”? (Matteo, 21, 16). Il passo citato (Sal­mo 8, 3) era opportunissimo, perché ivi il poeta contrappone l'inge­nua laude innalzata a Dio da bambini e da lattanti al silenzio for­zato dei suoi nemici: se dunque i fanciulli del Tempio erano gli esprimenti laude a Dio, i sacerdoti e gli Scribi potevano facilmente riconoscersi nei nemici di Dio ridotti al silenzio. Queste risposte di Gesù e il suo incontrastato trionfo dovettero far perdere il lume degli occhi ai Farisei. Fatto un bilancio di quanto avevano ottenuto con tutte le loro deliberazioni d'impadronirsi di Gesù, di farlo denunziare dalle spie, di metterlo a morte insieme con Lazaro, essi si ritrovarono in pieno fallimento: Gesù circolava a pie­de libero e in Gerusalemme stessa, la sua vita e quella di Lazaro erano salvaguardate dal fervore popolare, egli faceva sempre più se­guaci e ardiva periino entrare trionfalmente nella città santa. Gli stessi Farisei riconobbero questo loro fallimento e si dissero gli uni agli altri: Vedete che non ricavate alcuni profitto? Ecco, il mondo andò appresso a lui! (Giovanni, 12, 19). Tuttavia questa confessione non fu una capitolazione, anzi fu una conferma d'ostilità implaca­bile, in attesa che si presentasse l'occasione propizia per agire. Frattanto il corteo trionfale di Gesù aveva valicato la sommità del monte degli Olivi e discendeva lungo la china occidentale dirigendo­si al sottostante Tempio. Da quella china si contemplava il panora­ma dell'intera città: era la città uscita un trentennio prima dalle ma­ni di quell'infaticabile ricostruttore ch'era stato Erode il Grande, me­no gravata di memorie e meno solenne della città odierna ma in­comparabilmente più decorosa e più adorna. Ai piedi del monte, subito oltre il torrente Cedron, s'ergeva la mole grandiosa del Tem­pio sfavillante di ori e abbagliante di candidi marmi. Ricongiunto a settentrione con esso s'alzava il possente quadrilatero della torre Antonia, allora stazione della guarnigione romana e quasi dimora di falco che vigilasse sulla preda (§ 49). Al lato opposto, verso occiden­te, troneggiava la reggia di Erode, difesa a settentrione da quelle tre torri che l'esperto Tito un quarantennio dopo avrebbe giudicate me­spugnabili. Due recinti di mura proteggevano a settentrione la città, e di là dal recinto più esterno si estendeva il sobborgo del Bezetha (§ 384) che un decennio più tardi Agrippa I comincerà a recingere con un “terzo muro”. Qua e là, fra la distesa di case antiche, spic­cavano parecchie suntuose costruzioni recenti, mentre il quartiere più negletto appariva quello che occupava la parte sud-orientale della città, immediatamente più in giù del Tempio, ove era stata la Ge­rusalemme primitiva dei Jebusei, di David e di Salomone. Al contemplare questo panorama, Gesù pianse. 

§ 507. Quel pianto, fra tante grida festose e davanti a uno spettaco­lo cosi solenne era davvero inaspettato. I discepoli ne dovettero ri­manere sconcertati, e forse si domandarono in cuor loro se anche quel pianto voleva essere uno dei soliti correttivi messianici già ap­plicati dal maestro (§ § 400, 475, 495). La ragione fu comunicata dal piangente stesso, che rivolgendosi alla città contemplata esclamò: Oh! avessi conosciuto in questo giorno anche tu le cose (necessarie) alla pace! Adesso invece stanno nascoste agli occhi tuoi! Poiché verranno su te giorni quando i tuoi nemici ti ricingeranno di vallo, e ti accer­chieranno all'intorno, e ti stringeranno da ogni parte, e abbatteranno te e i tuoi figli dentro te, e non lasceranno pietra sopra pietra in te, perché non conoscesti il tempo (propizio) della visita (fatta) a te (Luca, 19, 42-44). Il pianto dunque si riferiva non al presente ma ad un futuro più o meno remoto. Tutti sanno che queste parole si riferiscono al terribile assedio che Tito mise nel 70 a Gerusalemme. Il vallo qui accennato è il muro di circonvallazione lungo 39 stadi (chilometri 7,215 costruito dalle le­gioni romane in soli tre giorni attorno alla città per prenderla con la fame: esso si trova minutamente descritto da Flavio Giuseppe (Guerra giud., v, 502-511) e se ne sono rinvenute recentemente alcune probabili tracce; è anche da notare che il vallo, nella sua parte ad oriente della città, saliva dal torrentè Cedron verso il monte degli Olivi (ivi, 504), dove appunto si trovava Gesù quando pianse. E’ superfluo dire che una predizione cosi precisa è giudicata assurda dai razionalisti, i quali perciò affermano che queste parole non furono mai pronunziate da Gesù ma sono un invenzione dell'evangelista il quale avrebbe scritto dopo la catastrofe del 70; in attesa che que­sta affermazione sia suffragata da prove storiche, le quali non siano la monotona “impossibilità” del miracolo, si può passare ad un altro riavvicinamento offertoci egualmente da Flavio Giuseppe. Rac­conta egli (ivi, VII, I 12-113) che Tito, alcuni mesi dopo aver distrut­to Gerusalemme, da Antiochia passò in Egitto, e che, strada facendo, si recò a Gerusalemme; confrontando egli allora la mesta solitudine che scorgeva con la passata magnificenza dela città, e richiamando alla mente sia la grandezza degli edifici ruinati sia l'antica bellezza, deplorò la distruzione della città, non già vantandosi, come altri (avrebbe fatto), d'averla espugnata pur essendo si grande e si forte, bensì maledicendo spesso i colpevoli che avevano iniziato la rivolta e attirato sulla città quella punizione. Cosicché, Gesù e Tito concordano nel far ricadere la responsabilità della distruzione su determinati uomini e nell'affermare che la distruzione non sarebbe avvenuta se la condotta di quegli uomini fosse stata diversa: ma Gesù, giudeo e adoratore del Dio Jahvè, versa anche brucianti lacrime sul­la distruzione della sua città e del suo Tempio, mentre Tito, romano e cultore del Giove Capitolino, deplora la perdita di sontuosi edifici e di belle opere d'arte; l'uno piange sulla rovina spirituale, l'altro rimpiange la rovina materiale; ma soprattutto l'uno piange sulla cit­tà che lo ucciderà fra pochi giorni, l'altro rimpiange la sorte della città che egli stesso ha distrutta e dove è stato proclamato impera­tore mentre il Tempio era tuttora in fiamme.

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