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martedì 20 novembre 2012

1960 - Vita di Gesù (paragrafi 586-590)


§ 586. Appena fatta questa concessione, Pilato di rincalzo offrì agli accusatori un altro motivo per calmarsi. Era consuetudine, in occa­sione della Pasqua, che il procuratore liberasse un carcerato scelto dalla folla; parve pertanto a Pilato che questa volta sarebbe stata cosa equa e insieme opportuna far cadere la grazia su Gesù, cosicché la giustizia sarebbe rimasta salva (almeno in parte) e sarebbero an­che rimasti appagati gli accusatori. Ora, in quei giorni era detenuto un famigerato malfattore chiama­to Barabba (“figlio del padre”), nome abbastanza comune negli scrit­ti rabbinici: secondo poi alcuni codici evangelici, scarsi tuttavia di numero e d'autorità, il nome intero di quest'uomo sarebbe stato Gesù Barabba, in cui Barabba sarebbe piuttosto un epiteto e Gesù il vero nome. Costui in una sedizione popolare, suscitata forse da lui stesso, aveva commesso un omicidio: abitualmente, poi era un la­dro. Arrestato, stava in prigione attendendo la sentenza del procu­ratore. Pilato pertanto previde che, se avesse proposto agli accusa­tori la grazia o di Gesù o di Barabba, la scelta sarebbe certamente caduta su Gesù a causa del carattere palesemente infame di Barabba. Si presentò quindi sul limitare del pretorio e fece la proposta: Chi volete che vi dimetta, Barabba oppure Gesù, quello chiamato Cristo? e per meglio specificare aggiunse il re dei Giudei? La previsio­ne di Pilato, che la scelta sarebbe caduta su Gesù, dimostra ch'egli aveva una conoscenza assai difettosa, non tanto della nazione da lui governata, quanto delle guide spirituali di quella nazione. La pro­posta infatti a bella prima fece impressione sulla folla degli accusa­tori, i quali stavano là davanti al pretorio a gridare ciò ch'era sug­gerito loro dai sommi sacerdoti e dagli anziani, loro guide spirituali; a quel gregge di servitori Gesù era certamente sgradito perché era sgradito ai loro padroni, ma anche per essi Barabba era tale furfante da meritarsi invece della grazia la più severa delle condanne. Ci fu una breve sosta fatta di perplessità, in cui il servitorame vociante non riusciva a decidersi tra la richiesta del fondo onesto della sua coscienza e la richiesta dei suoi inflessibili padroni.

§ 587. Durante questa sosta avvenne un incidente curioso. Mentre Pilato credeva d'aver trovato la buona via d'uscita, ricevette priva­tamente un avviso di sua moglie, formulato in questi termini: Non aver nulla (da fare) con quel giusto, poiché molti sogni ho avuti oggi a cagione di lui. La notizia è data soltanto da Matteo, l'accu­rato segnalatore di comunicazioni divine avvenute per mezzo di so­gni (§ 239). Storicamente, poi, risulta che solo da poco tempo era stato permesso ai magistrati dell'Impero romano di recar seco le proprie mogli quando andavano a governare il territorio loro asse­gnato, mentre ai tempi della Repubblica la moglie non poteva se­guire il marito. A Pilato l'avviso della moglie dovette far molta impressione. Scet­tico riguardo a teorie filosofiche e a disquisizioni sulla verità e sull'errore, era certamente assai sensibile a quegli arcani segni che riscotevano tanto credito presso i Romani del suo tempo. Tutta Ro­ma sapeva benissimo che Giulio Cesare avrebbe evitato le 23 pugna­late delle fatali Idi di marzo se avesse dato ascolto alla moglie Cal­purnia che lo aveva pregato di non recarsi quel giorno nella curia, perché essa nella notte precedente lo aveva visto in sogno trafitto da molte ferite. Il caso di Calpurnia poté benissimo venire in mente a Pilato; ad ogni modo egli, oramai implicato nel processo di quel giusto, ricevette certamente dall'avviso della moglie una nuova conferma ad adoperarsi per quanto poteva in favore dell'imputato.

§ 588. Nel frattempo la sosta di perplessità era cessata, perché il servitorame vociante era stato ammaestrato dai suoi padroni e si era deciso ad obbedire ad essi più che al fondo onesto della sua coscien­za a sommi sacerdoti e gli anziani persuasero le folle che chiedessero Barabba e mandassero in rovina Gesù (Matteo, 27, 20). Ricominciava per tanto la battaglia, dopoché ambedue i combatten­ti avevano ricevuto rinforzi: il procuratore dal messaggio della mo­glie, la folla dalle istigazioni dei Sinedristi. Rivolgendosi di nuovo agli accusatori, Pilato ripeté la domanda: Chi volete che vi rimetta dei due? Tutti risposero concordi: Barabba! Meravigliato della scelta, Pilato non si preoccupò del delinquente prescelto ma dell'innocente scartato, e istintivamente richiese: Che farò dunque di Gesù, quello chiamato Cristo? GIistigatori fecero gridare dalla folla: Sia crocifisso! Il procuratore insisté: Ma che cosa ha fatto di male? Evidentemente la sua mentalità giuridica esigeva una giustificazione alla gravissima pena richiesta; la giustificazione fu data, e consistette nel grido rinnovato più e più volte: Sia crocifisso! (Matteo, 27, 22-23). Da questo modo di ragionare Pilato rimase, non propriamente addo­lorato, ma piuttosto interdetto, sconcertato, nauseato. Con quegli schiamazzanti egli non riusciva a discutere: l'uomo di legge parlava una lingua che quelli non capivano. Ma anche materialmente sa­rebbe stato difficile farsi intendere, perché le alte e continue grida avrebbero ricoperto la voce dell'oratore. Pilato tuttavia volle egual­mente far conoscere ch'egli non condivideva affatto i propositi san­guinari manifestati da loro, e a tale scopo sostituì la comunicazione orale con un'azione rappresentativa percettibile con lo sguardo: fat­tosi portare un catino d'acqua si lavò le mani li in presenza della folla, mentre questa chiedeva a gran voce la morte dell'imputato. L'azione di lavarsi le mani assumeva spontaneamente un senso sim­bolico sia presso gli Ebrei (Deuteronomio, 21, 6-7) sia presso altri popoli antichi (Erodoto, 1, 35; Eneide, Il, 719; ecc.); in quel caso essa mostrava che il procuratore respingeva ogni responsabilità della domanda rivoltagli, qualunque fosse stato l'esito di tutto l'affare. In un momento poi in cui il clamore diminuì alquanto, egli per spie­gare anche meglio il senso simbolico gridò: Sono innocente di questo sangue! Voi (ve la) vedrete! Le sue parole furono udite da parecchi, e la risposta fu data con prontezza e con sicurezza assolute: Il san­gue di lui (sia) sopra noi e sopra i nostri figli!

§ 589. Questo augurio, o voto che fosse, invita ad una breve ed ele­mentare riflessione, che del resto non è estranea al processo di Gesù. L'augurio fu espresso concordemente sia dalle guide spirituali del giudaismo sia da una larga rappresentanza del popolo di Gerusalem­me: era dunque veramente una rappresentativa vox populi, un voto strettamente ufficiale che riassumeva i desideri sia del capo che del­le membra, sia del Sinedrio che del popolo. L'augurio o voto fu indirizzato certamente non al procuratore romano ma ad un giudi­ce ben più alto, ossia a quel giudice tante volte invocato nelle sacre Scritture d'Israele il quale solo poteva far si che quel discusso san­gue ricadesse anche sulle teste dei lontani figli. Solo quel sovreminen­te giudice poteva mutare la vox populi in una vox Dei, accoglien­do quel voto e mostrandolo avverato nella storia. Ora, se tutto ciò sia realmente avvenuto, lo storico odierno riscontrerà per conto suo rivolgendosi appunto alla storia, e non soltanto a quella antica ma anche a quella odierna. E ciò anche perché ai nostri giorni la questione è stata ripresa, e precisamente da quei figli di cui parla il voto. Non esistendo più oggi il Sinedrio che 19 secoli fa condannò Gesù ed espresse il voto che il sangue di lui ricadesse sui più lontani figli d'Israele, questi figli nel 1933 istituirono a Gerusalemme un tribunale ufficioso, com­posto di cinque insigni Israeliti, affinché riprendesse in esame l'an­tica sentenza del Sinedrio. Il verdetto pronùnziato da questo tribunale, con quattro voti favorevoli e uno contrario, fu che l'antica sentenza del Sinedrio doveva essere ritrattata, perché l'innocenza dell'imputato era dimostrata, la sua condanna era stata uno dei più terribili errori che gli uomini abbiano commesso, riparando il quale la razza ebraica ne sarebbe onorata. 

§ 590. A questo punto del processo Pilato si ritrovò in condizioni di spirito assai contrastanti fra loro. Convintissimo personalmente dell'innocenza di Gesù, egli era stato rafforzato in questa sua convinzio­ne dal misterioso messaggio della moglie; di più, la puntigliosità e scontrosità del governatore trovava qui un'opportuna occasione per fare ai suoi governati uno di quei dispetti di cui egli tanto si com­piaceva, e che questa volta sarebbe stato giustificato dalla legge e dall'equità. Ma, d'altra parte, la pertinacia degli accusatori invece di scemare era andata sempre crescendo, e se fosse stata contrad­detta in maniera totale e definitiva poteva facilissimamente accen­dere uno di quegli incendi popolari ch'erano il sommo spavento d'o­gni governatore romano della Giudea: la previsione di siffatta con­seguenza, nonché la paura di ricorsi inviati a Roma contro di lui, inducevano Pilato a riflettere con massima accortezza sulla decisione da prendere, e mentre annebbiavano sempre più ai suoi occhi l'au­stera visione della giustizia la sostituivano man mano con le lusin­ghiere fattezze del tornaconto politico. Egli quindi cercò di aggirare l'ostacolo, ricorrendo a ripieghi e cer­cando quasi d'illudere gli avversari mediante concessioni minorIn primo luogo, accolse la domanda della folla e graziò Barabba; inol­tre, sempre con la speranza di rendere gli accusatori più remissi­vi, fece eseguire la precedente promessa di sottoporre Gesù alla fla­gellazione.
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