§ 581. Pilato allora rientrò nell'interno del pretorio, ove nel frattempo l'imputato era stato condotto mentre gli accusatori rimanevano scrupolosamente al di fuori, e cominciò con la questione piu' scottante domandando a Gesù: Tu sei il re dei Giudei? Questa interrogazione ripeteva materialmente l'ultimo capo d'accusa, ma in hocca a Pilato il termine re dei Giudei assumeva un significato volutamente ambiguo. Andando a fondo, l'interrogazione sonava a un dipresso cosi: Sei tu re dei Giudei in qualcuno di questi sensi oltramondani e numinosi impiegati spesso negli scritti della tua nazione; oppure sei re dei Giudei nel senso in cui Numa Pompilio fu re dei miei antenati a Roma, ed Erode figlio di Antipatro era re dei tuoi antenati qui in Palestina mezzo secolo fa? Sei re di un mondo invisibile e ideale, oppure re di questo mondo visibile e materiale? Gesù rispose a Pilato: Da te stesso dici tu questo, oppure altri te (lo) disse di me? A Pilato non sfuggi che la risposta mirava appunto a distinguere quell'equivoco ch'era contenuto nella domanda; ne fu stizzito, e con una certa sdegnosità replicò: Sono io forse un giudeo? La tua nazione e i sommi sacerdoti ti consegnarono a me. Che cosa hai fatto? La replica di Gesù insistette ancora nel distinguere i due sensi della prima domanda: Il regno mio non è di questo mondo. Se di questo mondo fosse il regno mio, i miei ministri avrebbero lottato affinchè (io) non fossi consegnato ai Giudei. Ora, invece, il mio regno non è da qui. Pilato, alquanto sorpreso da queste parole, intervenne per mettere in chiaro almeno in punto, e replicò: Dunque, tu sei re? aspettandosi senza dubbio che l'imputato respingesse senz'altro l'affermazione. Gesù invece l'accettò in pieno, giacché rispose: Tu dici che sono re; il che equivaleva a dire: “Sono veramente re come tu dici” (cfr. § 543, 567). Tuttavia a questa affermazione tenne subito dietro uno schiarimento, nel senso forse già previsto da Pilato: Io a questo (scopo) sono nato e a questo (scopo) sono venuto nel mondo per render testimonianza alla verità. Chiunque e' dalla verita, ascolta la mia voce. Pilato, infastidito, tagliò corto, dicendo: Che cos'e' verita?
§ 582. Queste parole in sostanza non erano una domanda ma una esclamazione, tant'è vero che Pilato appena le ebbe pronunziate non aspettò risposta e si mosse per uscire a parlamentare con i Giudei fuori del pretorio; esse volevano semplicemente segnalare che la discussione era uscita dal suo vero campo praginatico per entrare in quello delle idee astratte, che non interessavano affatto il magistrato. Avvedutosi di ciò, egli esclama negligentemente: “Ma che cosa vuoi che sia la verità!”. A Roma Pilato aveva forse assistito centinaia di volte a discussioni di graeculi filosofeggianti nelle case e sulle piazze in cerca di sonanti sesterzi, e si era annoiato mortalmente a udire interminabili disquisizioni sulla verità e sull'errore: ragion per cui, quella mattina, egli non aveva la più lontana voglia di udirne ancora un'altra da quell'oscuro giudeo. Ad ogni modo, dal breve dialogo avuto con Gesù, Pilato si era sempre più convinto che l'imputato era del tutto innocente e che l'intera denunzia era effetto dell'odio che gli portavano i capi della nazione per loro beghe religiose. E qui vennero ad incontrarsi e sommarsi insieme due spiccati lineamenti del carattere di Pilato: uno, il sentimento del ius che egli certamente possedeva come magistrato romano e che lo spingeva a far rispettare la legge; l'altro, un sentimento di disprezzo e di scontrosità ch'egli nutriva per quei capi del giudaismo, e che qui trovava un'ottima occasione per impuntarsi a contraddire in nome della legge. Ambedue questi sentimenti del giudice esigevano che l'imputato fosse rimandato assolto. Frattanto dal di fuori giungeva un vociare confuso, e a sbalzi si distinguevano or l'una or l'altra delle accuse ripetute adesso da tutta la folla. Pilato, che aveva già terminato il dialogo con Gesù, prima di affrontare la folla cercò dall'imputato quasi un suggerimento o un aiuto per la difesa di lui, e ritornatogli vicino gli domandò cori curiosità: Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano? (Marco, 15, 4). Ma colui che poco prima si era proclamato testimone della verità non rispose nulla, e serbò assoluto silenzio.
§ 583. Pilato ne rimase meravigliato; ma non recedette dal proposito di difendere quel silenzioso imputato anche senza l'aiuto di lui, e uscito fuori proclamò davanti a Sinedristi e plebei: Io non trovo in lui alcuna colpa! Con questa dichiarazione il processo doveva considerarsi terminato. I Sinedristi, più che i plebei, ne rimasero sdegnati. Protestando violentemente, si dettero essi a ripetere alla rinfusa le varie accuse ma specialmente quella politica: Fa insorgere il popolo, insegnando per tutta la Giudea e cominciando dalla Galilea fin qua (Luca, 23, 5). Queste ultime parole colpirono Pilato, perché sembravano offrirgli un elemento nuovo onde risolvere la questione; egli domandò se Gesù fosse galileo, ed essendogli risposto ch'era dei dominii del tetrarca Erode Antipa vide in questo particolare un buon appiglio in proprio favore. Egli era sicuro che, anche ad un esame fatto da Erode, Gesù sarebbe risultato innocente come all'esame testé subito al suo proprio tribunale: con ciò egli avrebbe avuto un nuovo argomento per ridurre al silenzio gli accusatori di lui, infliggendo inoltre ad essi una legalissima umiliazione. Inoltre il caso di quell'imputato offriva al procuratore una bell'occasione per riavvicinarsi al tetrarca, col quale egli da tempo era in cattivi rapporti, probabilmente perché Erode faceva la spia a danno dei magistrati romani d'Oriente presso l'imperatore Tiberio (§§ 15, 26). Perciò il procuratore, ostentando deferenza verso il tetrarca, decise d'inviargli il suo suddito affinché lo giudicasse. Veramente Gesù era stato denunziato al tribunale del rappresentante di Roma, e ivi doveva esser giudicato qualunque fosse il suo paese d'origine; tuttavia Pilato rinunciò volentieri alla propria giurisdizione, per i motivi pratici suddetti.
§ 584. Erode Antipa era appunto a Gerusalemme in quei giorni, per l'occasione della Pasqua. Quando seppe che il procuratore gl'inviava quell'imputato galileo, fu assai contento, perché era desideroso da molto tempo di vederlo a cagione di ciò che udiva di lui e sperava vedere qualche prodigio fatto da lui. Già sappiamo infatti che, per Erode Antipa, Gesù passava come Giovanni il Battista risuscitato (§ 357), e l'innata superstizione di colui che aveva assassinato il precursore era qui tanto più viva in quanto si riconnetteva col ricordo della sua propria vittima. Quando Erode ebbe Gesù alla sua presenza gli rivolse numerose domande, ma non ottenne neppure una risposta. Tuttavia se non parlò l'imputato, parlarono abbondantemente gli accusatori di prima che si erano presentati anche al nuovo tribunale: qui, davanti al Giudeo incoronato, essi avranno insistito piuttosto su accuse tipicamente giudaiche, quali le pretese bestemmie di Gesù, le violazioni del sabbato, le minacce contro il Tempio, la sua proclamazione d'essere pari a Dio. Il silenzio dell'imputato fu una disillusione per Erode; tuttavia egli aveva giuridicamente la vista più chiara degli accusatori, e nonostante la sua disillusione capi che tutte quelle accuse erano frutto di livore e che l'imputato era innocente. Sarebbe stato quindi il caso di proclamarlo tale senz'altro, e di rinviarlo libero: ma la tronfia alterigia del tetrarca volle la sua vendetta per la disillusione patita. Dalle guardie che lo circondavano Erode fece rivestire il silenzioso imputato di una veste sgargiante, uno di quegli indumenti vistosi usati in Oriente da persone insigni per occasioni solenni: forse era qualche capo di vestiario, consunto e fuori uso, che il tetrarca fece rimetter fuori per beffeggiare l'imputato, il quale così anche esteriormente figurava da re come si era proclamato. Perciò anche quella beffa con cui si concludeva l'inquisizione fatta da Erode mostrava che a giudizio dell'inquirente l'imputato era uomo, sciocco e ridicolo bensì, ma tale da non offrire alcun pericolo: la beffa stessa già respingeva implicitamente la tesi degli accusatori, secondo cui l'imputato era un rivoluzionario e un sacrilego. Un delinquente siffatto sarebhe stato punito severamente, non già beffeggiato allegramente. Vestito in quella maniera, fra i clamori sarcastici degli accusatori che lo seguivano dappertutto, Gesù fu rinviato da Erode a Pilato. Luca, il solo evangelista che narra questo episodio, conclude dicendo che divennero amici fra loro Erode e Pilato in quello stesso giorno, giacché dapprima erano in ostilità fra loro (Luca, 23, 12).
§ 585. Quando Pilato vide che Erode rinviandogli Gesù non voleva immischiarsi nell'affare, s'impensierì e cominciò a capire che si trattava di cosa più seria ed imbrogliata di quanto gli fosse apparsa da principio. Tuttavia egli tenne ancora fermamente all'innocenza dell'imputato: solo che si propose di trovar una via d'uscita cedendo in qualche parte agli accusatori. L'uomo di legge si ritirava alquanto indietro, e si metteva sulla stessa linea dell'uomo politico. Rivolto quindi agli accusatori, tenne loro questo ragionamento: Mi recaste quest'uomo come pervertitore del popolo; ed ecco che io, interrogando davanti a voi, nulla trovai di colpevole in quest'uomo di quanto l'accusate. Ma neppure Erode, giacché lo rinviò a noi. Ed ecco, nulla degno di morte e' stato commésso da lui. Fin qui ha parlato l'uomo di legge, che ha il sentimento del ius.Ma subito appresso si fa avanti l'uomo politico e comincia a parlar lui, togliendo la parola all'uomo di legge; Pilato infatti termina il precedente ragionamento con questa inaspettata conclusione: Dopo aver dunque sottoposto lui ad un castigo, (lo) rimanderò (libero). Il vero errore dialettico di questa conclusione sta in quel dunque; sené Pilato né Erode avevano trovato nulla di colpevole e nulla degno di morte, come giustificare quel dunque? Come legittimare quel castigo promesso, che certo non sarebbe stato una pena leggiera, ma la terribile flagellatio romana? Ma per il procuratore ciò che non era ammesso dal diritto era richiesto dalla politica.
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