Il processo civile davanti a Pilato ed Erode
§ 576. La condanna pronunziata dal Sinedrio non poteva essere eseguita se non dopo esplicita approvazione del procuratore romano; perciò se i Sinedristi volevano raggiungere il loro scopo dovevano superare adesso questo nuovo ostacolo. Quale via seguire? L'approvazione del procuratore si poteva ottenere in due maniere: invitando il magistrato di Roma ad accettare la conclusione del processo svoltosi davanti al tribunale supremo del giudaismo e a fidarsi della sua imparzialità; ovvero deferendo l'imputato al tribunale del procuratore per istituire un nuovo processo. Questa seconda maniera fu scelta dai Sinedristi, e astutamente: giacché se avessero chiesto a Pilato l'approvazione di una condanna a morte pronunziata per ragioni puramente religiose, egli certamente non avrebbe confermato ad occhi chiusi la sentenza del Sinedrio, ma avrebbe voluto indagare se le accuse erano vere, se la procedura era stata legale, se sotto pretesti religiosi non si nascondessero piuttosto rancori e rivalità personali; e allora c'era pericolo che l'intera procedura che aveva portato alla sentenza di condanna fosse riesaminata, e venissero alla luce molte cose che dovevano invece rimanere nell'ombra. No, era maniera più facile e più sicura riaprire il processo, impiantandolo su nuove basi: se poi si deferiva l'imputato al tribunale civile del procuratore, bisognava prender costui dal suo lato debole e presentare il Rabbi galileo quale pericoloso agitatore politico, suscitatore di ribellioni contro l'autorità di Roma. Imboccata tale strada, non c'era alcun dubbio che lo stato d'animo di Pilato e le generiche condizioni politiche avessero influito assai sullo svolgimento del nuovo processo, indirizzandolo alla mèta prefissa dai Sinedristi. Conforme a questo piano, appena terminata la seduta mattinale, il Sinedrio quasi al completo si recò al luogo ov'era il pretorio di Pilato, conducendosi appresso Gesù. L'evangelista testimonio oculare avverte con precisione che era l'alba (Giov., 18, 28); dovevano essere circa le nostre ore sei antimeridiane (§ 565). I Romani infatti erano mattinieri: essi cominciavano la trattazione degli affari già all'alba e vi rimanevano occupati fin verso mezzogiorno, mentre riserbavano il pomeriggio e la sera alla cure personali e ai divertimenti; solo più tardi, quando l'Impero fu invaso da Barbari infingardi e sonnolenti, si perdette l'uso d'esser mattinieri e si rimandò la trattazione degli affari a giornata molto inoltrata. - Giunti pertanto sul limitare del pretorio, gli accusatori di Gesù si fermarono: quella dimora era d'un pagano ed essi non potevano entrarvi senza contaminarsi, mentre premeva loro di mantenersi puri per celebrare la Pasqua che cadeva, secondo il loro computo, alla sera di quel giorno stesso (§ 536). Dov'era il pretorio di Pilato?
§ 577. Per i Romani il praetorium era il luogo ove il praetor stabilisse il suo ufficio il qual luogo poteva esser oggi una tenda militare, domani un castello fortificato, un altro giorno il palazzo di un re debellato. Nato sotto la tenda militare, l'ufficio del pretorio conservò sempre un'austera semplicità, rimanendo costituito essenzialmente da due principali arredi, il “tribunale” e il seggio curule. Il “tribunale” era un suggesto o predella di forma semiciroolare, di notevole altezza ed ampiezza, ma tale da potersi facilmente trasportare ed impiantare ove fosse opportuno; il seggio curule era l'antico seggio dei magistrati romani, destinato qui al pretore e colIlocato nel centro della predella semicircolare. Dall'alto del “tribunale” il pretore amministrava ufficialmente la giustizia, stando assiso sul seggio curule al centro e fiancheggiato ai due lati del semicerchio dai suoi assistenti o consiglieri; davanti a quella predella dovevano presentarsi imputati e accusatori, testimoni e difensori, e il pretore dopo aver ascoltato tutti e tutto ed essersi consultato con i suoi consiglieri pronunziava la sentenza dal seggio curule. A Cesarea, ove il procuratore della Palestina risiedeva ordinariamente (§ 21), il suo pretorio era impiantato nella reggia di Erode il Grande perché ivi era la su a abituale dimora (cfr. il pretorio di Erode a Cesarea, in Aui,23,35); anche a Gerusalemme, quando il procuratore vi si recava, la sua abituale dimora era la reggia di Erode, tuttavia da ciò non segue - astrattamente parlando - che ivi fosse sempre impiantato il suo pretorio, giacché egli per ragioni speciali poteva prender dimora altrove, ad esempio nella fortezza Antonia, la quale si prestava molto meglio per sorvegliare le immense folle che accorrevano nell'attiguo Tempio in occasione della Pasqua e delle altre grandi feste ebraiche (§ 49). Per la Pasqua in cui avvenne il processo di Gesù, dove stava impiantato il pretorio di Pilato? Una preziosa indicazione è fornita dal testimonio oculare allorché egli precisa che per pronunziare la sentenza finale Pilato s'assise sul tribunale (Giov., 19, 13). Dunque quel giorno Pilato impiantò il suo pretorio in un luogo di Gerusalemme ch'era designato comunemente con due nomi diversi: Lithostrotos è nome schiettamente greco, e significa etimologicamente “strato di pietre” ossia “lastricato”; Gabbatha invece è nome aramaico, e significa “luogo eminente”, “altura”. Erano dunque due termini che non si traducevano a vicenda, perché erano di significato etimologico diverso, ma praticamente designavano ambedue lo stesso luogo; tuttavia casi come questo si spiegano facilmente con le diverse ragioni che possono dare origine alle varie designazioni, e sono in realtà assai frequenti: basti ricordare soltanto nella Roma odierna Pantheon e Rotonda, Quirinale e Montecavallo, ecc. Per giustificare dal lato etimologico ambedue i nomi qui ricordati dall'evangelista bisognerà rintracciane nella Gerusalemme antica un luogo che fosse geologicamente una ”altura”, e su cui fosse stato disposto un “lastricato” cosi notevole da meritare l'appellativo antonomastico.
§ 578. Avendo presenti queste esigenze dell'indicazione evangelica tutto c'induce a concludere che il pretorio di Pilato fosse impiantato quel giorno nella fortezza Antonia. Questa fortezza, oltre a prestarsi meglio per la sorveglianza nelle giornate poliziescamente torbide, era collocata veramente sopra un'”altrura”, quella del Bezetha (§ 384), chiamata da Flavio Giuseppe la piu' alta di tutte le colline di Gerusalemme (Guerra giud., v, 246); fu dunque naturale che i cittadini riservassero per antonomasia il termine di “altura” a quella collina che emineva su tutte le altre, sebbene il termine fosse generico e risultasse precisato solo dall'uso. Ma quando più tardi fu costruita la massiccia fortezza Antonia, l'eminenza della collina sembrò quasi scomparire sotto l'enorme mole. Ecco allora avvenire una sostituzione del termine generico di “altura” col termine nuovo di “lastricato” provocato dalla nuova costruzione, sebbene per qualche tempo i due nomi fosse usati promiscuamente, mentre il nome antico e indigeno era usato più dai con servatori e il nuovo e forestiero più dai progressivi. Resta da vedere se nell'edificio dell'Antonia esisteva veramente que sto Lithostrotos, questo “lastricato” cosi' importante da designare per estensione tutta la zona; e qui non si potrà rispondere se non sulla base degli antichi documenti e delle recenti scoperte archeologiche. Dalla minuta descrizione che Flavio Giuseppe fa dell'Antonia (§ 49) risulta ch'essa era costituita da un quadrilatero rafforzato agli angoli da quattro potenti torri; ma il quadrilatero non era totalmente coperto di costruzioni, bensi racchiudeva nel mezzo un vasto cortile a cielo scoperto contornato da portici, da casematte e dai muri del quadrilatero. Il cortile naturalmente era frequentatissimo, passandovi quanti andavano e venivano; in esso i soldati ivi di guarnigione si saranno schierati a rassegna, avranno fatto taluni esercizi militari, avranno passato lunghe ore in ozio giocando a dadi, a “filetto” e a simili passatempi intuitiva, quindi, la necessità che quel cortile fosse provvisto di un buon “lastricato” che ne proteggesse il suolo. Ebbene, questo “lastricato” è stato ritrovato e nettamente riconosciuto dalle ricerche archeologiche praticate sul posto in questi ultimi anni. Da calcoli approssimativi fatti sui ruderi si è potuta valutare la superficie dell'intero cortile a mq. 2.500. Sul luogo si sono scoperti, oltre ad avanzi di varie costruzioni fiancheggianti la fortezza Antonia, anche larghi strati di « lastricato » molto ben conservati nonostante le successive trasformazioni del luogo. All'esame archeologico il « lastricato » si mostra quale opera tipicamente romana, come usava farne Erode il Grande costruttore dell'Antonia. Le lastre di pietra, ampie e solide, misurano talvolta fino a 2 metri di lunghezza, su 1,50 di larghezza e 0,50 di spessore; fra le molte tracce che queste pietre portano dell'intenso uso che se ne fece lungo i secoli, le piu' curiose sono varie delineazioni o trame di giuochi romani, quali il « filetto » e simili, che furono indubbiamente incise dai soldati per le loro ore di riposo. Si può quindi ritenere come praticamente sicuro che il “lastricato” ritrovato sia il Lithostrotos dell'evangelista, e che in questo luogo chiamato anche Gabbatha fosse impiantato in quel giorno il pretorio di Pilato.
§ 579. Il procuratore romano, avvertito che i membri del Sinedrio con molta folla s'erano fermati fuori del pretorio e volevano parlargli a proposito di un certo imputato chiamato Gesu' di Nazareth, uscì verso di loro e dato uno sguardo attorno domandò per cominciare Quale accusa portate contro quest'uomo? Gli fu risposto: Se costui non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato. Veramente questa risposta non era un'accusa: voleva esser piutto sto una implicita captatio benevolentia, col suo latente invito a fidarsi di ciò che gli accusatori affermavano e a rimettersi al giudizio dato dal Sinedrio sull'imputato. Stesse pur tranquillo il governatore: i suoi governati la pensavano in tutto come lui riguardo alla giustizia e all'equità, e deferivano al suo tribunale quell'imputato perche' era proprio un malfattore assolutamente meritevole di morte. La captatio benevolentia fu interpretata da Pilato per quel che valeva. Il navigato romano capì subito che si trattava di una delle tante questioni che vertevano su idee religiose giudaiche e nelle quali egli non voleva affatto entrare; richiamandosi quindi alle norme vigenti, rispose: Prendetelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. Queste parole non significavano certamente che gli accusatori potessero fare dell'imputato ciò che volevano, compreso il metterlo a morte: erano soltanto un invito ad applicare le leggi nazionali, sempre con la notoria esclusione della pena capitale. Ma precisamente qui era il punto piu' delicato della questione, e gli accusatori lo segnalarono direttamente al procuratore dicendogli: A noi non e' lecito uccidere alcuno. Questa risposta manifestava al pmcuratore l'occulto desiderio degli accusatori, facendogli anche intravedere ciò che era avvenuto in quella notte. Se il Sinedrio si era rivolto al rappresentante di Roma non aveva fatto ciò per poter infliggere una multa o una scomunica o le 39 staffilate legali (§ 61), tutte pene che esso poteva legittimamente infliggere senza l'approvazione del procuratore: gli accusatori invece volevano il permesso di eseguire la pena capitale, pronunziata in quella notte dal Sinedrio ma rimasta fino allora inefficace. Da questa risposta pertanto Pilato capì che l'imputato, nell'intenzione degli accusatori, era già un uomo destinato alla morte.
§ 580. Così veniva impostato il nuovo processo di Gesù davanti all'autorità civile. Ma per convincere il nuovo giudice, che quasi certamente non aveva mai inteso parlare di un Gesù di Nazareth, occorrevano delle prove; e gli accusatori addussero prove adatte a far impressione sul giudice. Dissero pertanto i Giudei: Noi troviamo costui che perturba la nostra nazione ed impedisce di dar tributi a Cesare e dice di essere Cristo (Messia) re (Luca, 23, 2). Questa era un'accusa strettamente politica, e come tale veniva a sostituirsi alle accuse religiose ch'erano state addotte davanti al tribunale del Sinedrio: qui, davanti al tribunale del magistrato di Roma, Gesù è presentato come un rivoluzionario politico, e più esattamente come un imitatore di Giuda il Galileo (§ 514) nell'impedire il pagamento dei tributi a Cesare, nonché come un condottiero nazionalista che dice di essere il re-messia politico; è certo, infatti, che l'ultimo capo d'accusa si riferisce alla regalità politica. Senonché Pilato non era davvero tanto ingenuo da prender per oro colato tali accuse, e sotto ad esse intravide subito qualcosa di ben diverso. Ad ogni modo il terreno su cui erano scesi gli accusatori era di natura delicatissima per lui, e tale da obbligarlo a scendervi anch'egli: a lui, rappresentante di Roma, veniva deferito un imputato sotto l'accusa di congiurare contro Roma ed egli, sebbene avesse capito subito che l'accusa era priva di fondamento, non poteva sottrarsi all'obbligo di accogliere e discutere tale accusa; se avesse trascurato di far ciò, c'era pericolo che gli accusatori delusi inviassero denunzie a Roma, dipingendolo come remissivo e negligente nel reprimere moti politici contro l'autorità da lui rappresentata. Egli perciò, quale uomo di legge, si proponeva di smascherare gli infingimenti degli accusatori: ma nello stesso tempo, quale magistrato di Roma, si proponeva di figurare come vigile custode dell'autorità imperiale. Non restava che interrogare l'imputato stesso.
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