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mercoledì 7 novembre 2012

1929 - Vita di Gesù (paragrafi 570-575)


Gli oltraggi. I rinnegamenti di Pietro. La fine di Giuda Iscariota

§ 570. Dopo la seduta notturna, allorché la sorte dell'imputato era praticamente già segnata, egli fu consegnato alle guardie del Sinedrio affinché lo custodissero in attesa della seduta mattinale. Padroni di quell'uomo ormai fuori legge, stanchi e irritati per la not­te passata insonne a causa di lui, gli sbirri si compensarono riducen­do il condannato a oggetto dei loro raffinati ludibri e delle loro beffe prolungate. Per forse due ore - circa dalle tre alle cinque del mat­tino (§§ 562, 565) - l'imputato rimase in balia di quei suoi custodi, con i quali da principio si saranno uniti anche taluni più focosi mem­bri del Sinedrio per incitare i beffeggiatori e per gustare lo spetta­colo. Attraverso l'àtrio della casa comune ad Anna ed a Caifa, Gesù fu condotto in qualche oscuro sotterraneo; là egli fu schiaffeggiato, gli fu sputato in faccia, gli furono rivolti insulti e contumelie d'ogni fatta come a bestemmiatore sacrilego. Si passò quindi agli schemi organizzati e sapienti, e si fecero su di lui i giuochi usuali dei bambini ma eseguiti qui in forma dolorosa ed atroce. Gli si bendarono gli occhi, e quindi si cominciò a scaricargli addosso a tutta forza guanciate domandandogli chi fosse il percusso­re. Era il giuoco che, fatto innocentemente dai fanciulli greci, eri chiamato nelle sue varie forme ovvero eseguito qui su Gesù, assumeva un valore sarcastico in quanto quel profeta, che tante volte aveva veduto cose nascoste e pensieri occulti, doveva essere bene in grado di nominare chi lo aveva percosso; ad ogni colpo, infatti, si chiedeva: Profetizzaci, Messia, chi e' che ti ha percosso? Altri poi lo presero a vergate, come si esprime romanamente Marco (§ 133). Nel frattempo sputi, maledizioni, beffe sar­castiche piovevano incessantemente giù alla rinfusa. Quando l'ingegno inventivo di quei custodi esaurì i suoi argomenti e la stanchezza prevalse sull'industriosità, essi si allontanarono man ma­no da Gesù e lo lasciarono accasciato come un cencio sulla panca dei suoi ludibri; si saranno quindi sdraiati li attorno nel sotterraneo a dormire, per continuare la custodia dell'imputato.

§ 571. Poco prima di questa scena era avvenuto un altro fatto di cui furono attori, non nemici, ma amici di Gesù. Vedemmo come al Gethsemani gli Apostoli abbandonassero il loro maestro tutti quanti, salvo Giuda. Dove andarono essi appena datisi alla fuga? Certamente non si allontanarono molto dal luogo dell'arre­sto, e cessarono di correre quando si videro sicuri di non fare li per li la stessa fine del maestro. Acquistata questa momentanea sicurezza, avvenne in essi una spontanea reazione contro l'atto di vigliàccheria commesso; allora, se non tutti, almeno parecchi di essi dovettero tor­nare alla spicciolata a Gerusalemme e rifecero, cauti però e guardin­ghi, la strada fatta poco prima dalle guardie con l'arrestato in mezzo. Più avanti di tutti, ma sempre molto addietro alle guardie, andava Pietro con un altro discepolo (Giov., 18, 15). Probabilmente nel frat­tempo Pietro si era ricordato della promessa fatta qualche ora prima a Gesù, di essergli fedele anche a costo della vita: ma trovando che in quel momento egli invece fuggiva a gambe levate, aveva ricuperato alcun poco dell'antico spirito battagliero, e stava forse almanaccando qualche progetto per poter risapere ciò che sarebbe accaduto all'arrestato. Spiando da lontano i movimenti delle guardie, egli scorse che tutti erano entrati nella casa del sommo sacerdote; allora avendo vicino a sé l'altro discepolo, s'avviò risolutamente verso la porta di quella casa. Qui avvenne un fatto curioso. Quell'altro discepoloera noto ai fa­miliari del sommo sacerdote, e perciò non trovò difficoltà ad entrare nella casa: Pietro invece, essendo sconosciuto, rimase titubante al di fuori. Ma quando l'altro discepolo s'avvide di non esser più seguito da Pietro, tornò indietro all'ingresso, parlò con la fantesca portinaia e ottenne che anche Pietro entrasse. Chi era quest'altro discepolo, di cui parla soltanto il IV vangelo senza trasmetterci il suo nome? Ragionevolissima per ogni senso sembra la congettura, abbastanza comune fra studiosi antichi e moderni, secon­do cui questo innominato discepolo sarebbe appunto Giovanni, che qui non nomina se stesso per la solita norma per cui nel suo vangelo dissimula costantemente la propria persona. Né deve far meraviglia che egli fosse noto ai familiari del sommo pontefice: saranno state relazioni commerciali tra l'agiata famiglia di Giovanni e il sommo sa­cerdote che non disdegnava trafficare, saranno state altre ragioni che ci sfuggono, è certo che una conoscenza d'indole superficiale fra il giovane e i familiari del sommo sacerdote non era cosa eccezionale. Essa permise ad ambedue i discepoli dell'imputato, ignoti come tali, d'entrare in quella casa.

§ 572. Per renderci esatto conto di quanto allora seguì, bisogna aver presente com'erano disposte le varie parti di un'agiata dimora gerosolimitana. Venendo dalla strada, si trovava dapprima l'uscio con la sua portineria; da cui, inoltrandosi, si passava nel vestibolo che era una specie di corridoio più o meno lungo; percorso questo corridoio si sboccava all'interno di un cortile o atrio, che serviva in comune ai vari appartamenti della casa. Le stanze disposte a pianterreno torno torno a questo atrio erano di solito destinate ai familiari e ai vari servizi; le stanze del piano elevato, poggiate su quelle del pianterre­no, erano riservate al padrone e alle persone di riguardo. Avvenne pertanto questo: quando Pietro fu introdotto mercé l'inter­vento di Giovanni, la fantesca portinaia sbirciò quello strano visita­tore con una curiosità petulante che doveva essere abituale in una donna e in una portinaia, e che era tanto più naturale in quella notte piena di sospetti. Colpita forse dalla figura insolita e dal contegno im­pacciato di lui, la fantesca gli disse parte sul serio e parte forse con ironia investigatrice: Forseché tu pure sei dei discepoli di quest’uomo? (Giov., 18, 17). Pietro, punto sul vivo, rispose pronto ed impai­sibile: Non sono! Dopo questa dichiarazione il capo degli Apostoli, quasi per allontanarsi in fretta dal luogo della sua menzogna e cer­carne un altro meno pericoloso, s'inoltrò nel vestibolo e raggiunse il cortile o atrio, ove trovò un gruppo di guardie raccolte attorno al fuoco; a Gerusalemme infatti, ai primi d'aprile, non è raro aver not­tate assai fredde favorite anche dall'altezza del sito (circa 740 metri 5. m.; § 5), ed essendo tale il caso di quella notte le guardie avevano acceso il fuoco (§ 537) anche per riaversi dal freddo che poco prima avevano preso giù nella valle del Cedron. Ostentando allora sicurezza ed indifferenza, Pietro s'avvicinò al fuoco mescolandosi con gli altri seduti là attorno. Ma la fantesca non aveva lasciato la sua preda; anche più incuriosita, ella aveva seguito Pietro fin presso al fuoco, e là ripeté ad alta voce davanti a tutto il crocchio il suo sospetto. Le sue parole fecero qualche impressione sugli astanti: il nuovo giunto fu esaminato più attentamente alla luce della fiarnina, e in realtà si trovò che il sospetto della portiaia pote­va avere un serio fondamento. Allora l'interrogazione già rivolta a Pietro dalla fantesca fu ripetuta alla rinfusa da altri, uomini e donne, con la vivacità di chi trova un caso interessante: fu ripetuta diret­tamente e indirettamente, con sicurezza o con ironia, puntando sem­pre sulla possibilità che quel visitatore sconosciuto fosse un discepolo dell'arrestato.

§ 573. Pietro s'avvide che invece di scegliersi un luogo meno peri­coloso, s'era gettato proprio fra le braccia del nemico, e non penso che a salvarsi; parte finse di non udire, parte respinse energicamente il sospetto affermando di non conoscere affatto Gesù. Ma là, alla luoe del fuoco e sotto lo sguardo di tanti scrutatori, la sua difesa era fiacca ed impacciata; meglio era cambiar nuovamente posto. E al­lora Pietro, già sconvolto nei suoi pensieri e anche turbato nella sua coscienza, si allontanò dal gruppo per ritornare verso la porta. In quel momento un gallo lanciò il suo grido mattutino (Marco, 14, 68). Ma nel frattempo la fantesca portinaia era tornata al suo posto di servizio presso l'uscio, cosicché Pietro si ritrovò nuovamente fra i piedi quella malaugurata femmina. Il caso curioso l'aveva divertita, ed ella continuò anche là i suoi assalti comunicando il suo sarcastico dubbio alla gente di servizio che passava; Pietro gironzolò un po' con aria indifferente tra l'uscio e l'atrio, ma messo poi alle strette di nuovo negò con giuramento:”Non conosco (quel)l'uomo!” (Mat­teo, 26, 72). Passò altro tempo, in cui sembrava che la gente si fosse dimenticata di Pietro; egli intanto, scrutando nella penombra e tendendo l'orec­cliio, cercava di vedere o udire qualche cosa di ciò che stava accaden­do a Gesù. Ma ad un certo punto, quando era trascorsa circa un'ora (Luca, 22, 59) dall'ingresso di Pietro in quell'infausta casa, i sospetti si risvegliarono; un gruppetto di gente s'avvicina a Pietro e gli spiat­tella davanti con piena convinzione:”In verita' anche tu sei di quei tali; sei infatti Galileo, giacché la tua parlata ti rende manifesto!” (Matteo, 26, 73; Marco,14, 70). I Galilei infatti usavano un dialetto il cui accento particolare li tra­diva appena aprissero la bocca, a un dipresso come un napoletano d'oggi sarebbe immediatamente tradito dal suo accento cominciando parlare in un crocicchio di toscani: da un aneddoto narrato nel Talmud risulterebbe che un Galileo pronunziava in maniera da confonderle insieme le seguenti parole (asino), (vino), (lana), (agnello). Il colpo era grave per Pietro. Eppure non fu il più grave: giacché appena fatta questa contestazione uno dei presenti, che nel frattempo aveva scrutato attentamente le fattezze di Pietro, saltò su a gridargli in faccia: Non ti ho forse io visto nel giardino insieme con quel (tale)? (Giov., 18, 26). Chi parlava con tanta sicurezza era parente di colui al quale Pietro qualche ora prima nel Gethsemani aveva moz­zato l'orecchio (§ 560). Davanti a prove cosi schiaccianti Pietro si vide perduto. Cercando istintivamente uno scampo qualunque, cominciò a giurare, maledire e imprecare, per convincere quei suoi scrutatori di non aver cono­sciuto giammai al mondo Gesù il Nazazeno e di sentirne parlare allora per la prima volta. Mentre veniva giù questo fiume di esecrazioni, il gallo cantò per la seconda volta (Marco, 14, 72); in quello stesso momento Gesù, lega­to e circondato da sbirri, attraversò l'atrio dov'era acceso il fuoco. Pochi minuti prima era infatti terminata la seduta notturna, e di là l'imputato era adesso condotto nei sotterranei di detenzione in atte­sa della seduta mattinale. Il canto del gallo questa volta colpi Pietro: dimenticandosi a un trat­to dei suoi scrutatori, egli si scosse, guardò più in là, vide Gesù che passava. Gesù a sua volta riguardò verso Pietro con uno di quegli sguardi davanti a cui Pietro si sentiva annientato. Il discepolo si ri­cordò allora di quanto il maestro gli aveva predetto poche ore avanti, che in quella stessa notte prima che il gallo avesse cantato due volte lo avrebbe rinnegato tre volte. Allora il povero ma generoso Pietro abbandonò il campo della sua disfatta, e uscito al di fuori pianse amaramente.

§ 574. Quando la seduta mattinale del Sinedrio fu terminata, si ri­seppe presto e facilmente al di fuori che Gesù vi era stato condan­nato: forse prima di ogni altro estraneo lo riseppe un uomo che aveva sommo interesse a questa sentenza, Giuda Iscariota. L'ultimo risultato del suo tradimento produsse nel suo spirito l'effetto sconvol­gitore a cui già accennammo (§ 533). Il maestro, ch'egli a suo modo amava, era stato condannato a morte. E adesso, avrebbe potuto egli liberarsi? Sarebbe egli ricorso alla sua potenza taumaturgica per rom­pere quella rete dentro cui l'avevano avviluppato i suoi nemici? Il traditore ne dubitò. Forse allora per la prima volta s'avvide che le ultime conseguenze del suo tradimento differivano da quelle da lui previste: certamente allora per la prima volta egli intravide l'abissale ingiustizia da lui commessa. In quell'uomo allora l'amore per Gesù ebbe il soprav­vento su ogni altro suo amore, anche su quello potentissimo per l'oro: ma da amore torbido e impuro qual era non poté assurgere alla speranza di perdono. I 30 sicli, che egli nel frattempo aveva rice­vuto e nei quali la sua cupidigia aveva sperato un pieno appagamento di spirito, gli divennero invece fonte di insopportabile ama­rezza. Sembrava che si fossero arroventati: egli non poteva più tenerseli addosso, parendogli di confermare e ribadire ancora il suo tradimento. Corse quindi dai sommi sacerdoti e davanti ad essi gri­dò: Ho peccato, tradendo sangue innocente! E insieme protese verso loro la borsa dei sicli in atto di riconsegnarla. I membri del Sinedrio, freddi, sicuri di sé, leggermente ironici, risposero al suo grido: A noi che (importa)? Tu (te la) vedrai! La risposta dei prezzolatori risonò nell'anima del prezzolato come beffa sarcastica, la quale mostrava che egli più di ogni altro era rimasto irretito nel tradimento ed egli solo ne era la vera vittima. Per i Sinedristi il tradimento doveva ri­manere e sussistere per sempre, né poteva in alcun modo rinnegar­si; tutto il peso del tradimento ricadesse pure sul traditore, e pen­sasse egli a cavarsi d'impaccio: quanto a loro, avendo pagato regolarmente i 30 sicli pattuiti, erano fuori di tutto l'affare né volevano più saperne. Un furore rabbioso s'impadroni allora del traditore. Vedendo precluse tutte le uscite, sentendosi schiacciato sotto il peso dei sicli, egli corse al vicino Tempio, s'inoltrò quanto gli era possibile verso l'edi­ficio del “santuario” , e di là freneti­camente cominciò a scagliare manciate di sicli verso il luogo santo quasi per liberarsi di un groviglio di vipere che gli mordeva il cuore. Le monete rotolarono sul lastricato con un tintinnio che sembrava uno sghignazzamento, si sparsero un po' dappertutto davanti al “antuario” giacquero là come in attesa. Ma anche quando quello sghignazzamento si tacque, il traditore non si sentìaffatto sollevato; se la cupidigia sua era dissipata e scompar­sa, in tragico compenso l'amore suo per Gesù credeva scorgere da­vanti a sé una rupe insormontabile per raggiungere la persona sem­pre amata. Da ogni parte il traditore vedeva attorno a sé il vuoto. Una nerissima tenebra avvolse allora la sua mente, ed egli fuggen­do via dal Tempio andò senz'altro ad impiccarsi.

§ 575. Della fine di Giuda abbiamo una doppia relazione con inte­ressanti divergenze, le quali sono di particolare valore nel confer­mare l'identità sostanziale del fatto. Matteo parla soltanto dell'im­piccamento. Luca invece, riportando un discorso di Pietro negli Atti (1, 16-19), ha conservato la tradizione secondo cui Giuda divenuto a capo fitto crepò in mezzo effondendo tutte le sue viscere. Le due relazioni sembrano riferirsi a due momenti diversi dello stesso fatto: dapprima Giuda s'impiccò, quindi il ramo dell'al­bero o la corda a cui egli era appeso si stroncò, forse per le scosse convulsive, e allora il suicida precipitò in basso; è legittimo immaginare che l'albero fosse sull'orlo di qualche burrone, cosicché la caduta produsse nel corpo del suicida le conseguenze di cui parla la relazione di Luca. Una tradizione identificherebbe il luogo dell'impiccamento di Giuda con il campo Haceldama comprato con i sicli di lui e situato nella Geenna (§ 324, nota prima), la valle a mezzogiorno di Gerusalem­me designata fin dai tempi antichi come luogo maledetto. La leggen­da a sua volta fin dai tempi più antichi si è impadronita del fatto, ricamandovi attorno o trasformandolo in mille maniere: già nel secolo IV si affermava che l'albero a cui Giuda si era impiccato era un fico (l'albero delle cui foglie si rivestirono i protoparenti peccatori; Genesi, 3, 7), e questo fico, dopo aver emigrato in vari posti lungo i secoli, era mostrato ancora superstite pochi anni addietro a Geru­salemme. Rimanevano frattanto i sicli gettati dal traditore nel Tem­pio. I puntualissimi Sinedristi si consultarono sulla sorte da assegnare a quel denaro in maniera che la Legge non fosse violata. La Legge infatti (Deuteronomio, 23, 19 ebr.) non permetteva che fosse accet­tato come offerta sacra denaro proveniente da guadagni indecorosi, quale meretricio, omicidio e simili; perciò i Sinedristi, raccolti i sicli, osservarono: Non e' lecito metterli nel “qorban” (tesoro sacro, cfr. § 387),giacché e' prezzo di sangue. D'altra parte 30 sicli erano una somma considerevole, a cui non sarebbe stato saggio rinunciare: e allora quegli accurati casuisti trovarono una via di mezzo per con­ciliare i due opposti. In occasione di grandi feste ebraiche affluivano a Gerusalemme moltissimi pellegrini dalle varie regioni della Diaspora, e avvenendo che taluni di essi morissero durante la loro perma­nenza nella città santa le autorità locali dovevano provvedere alla loro sepoltura. Ma fino a quel tempo un cimitero riservato a tale scopo non c'era: i Sinedristi quindi deliberarono che con i 30 sicli si comperasse un luogo chiamato comunemente “Campo del vasaio”. forse perché era argilloso e sede di un laboratorio di vasellame, e si destinasse a cimitero dei pellegrini. Conchiusa la compera, al “Cam­po del vasaio” fu dato usualmente il nome di “Campo di sangue”, in ricordo sia della provenienza del prezzo sia del suicidio di chi ave­va fornito il prezzo; Matteo poi ricorda che il nome “Campo di sangue”, è rimasto fino ad oggi. Una tradizione molto antica colloca l'Hacel­dama nella valle della Geenna di fronte al luogo ove s'apriva un'an­tica porta della città, che era probabilmente quella chiamata “Por­ta del vasellame” da Geremia (19, 2): ivi probabilmente già esiste­vano altri cimiteri. Egualmente Matteo, sempre premuroso nel segnalare l'avveramento delle antiche profezie, rileva che allora s'avverò la profezia di Za­charia (11, 12-13) la quale è citata dall'evangelista in questa ma­niera: E presero le trenta (monete) d'argento, il prezzo di colui che fu messo a prezzo che misero a prezzo, dai figli d'Israele, e le det­tero per il campo del vasaio, come ordinò a me il Signore. Questa citazione ha dato molto da fare agli studiosi, perché Matteo l'attri­buisce al profeta Geremia, sebbene in realtà oggi si ritrovi solo in Zacharia mentre in Geremia si riscontrano soltanto allusioni (Ger., 18, 2-12; 19, 1-15; 32, 6-9). Ma l'attribuzione a Geremia probabil­mente si spiega col fatto che il libro di Geremia occupava a quei tempi il primo posto nella collezione degli scritti profetici, e perciò citando e Geremia, s'intendeva citare un passo qualsiasi di detta collezione; bisogna inoltre aver presente che la citazione non è fatta punto in maniera letterale, cosicché sembra che l'evangelista abbia voluto fare piuttosto una raccolta di allusioni che una vera citazione.
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