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mercoledì 7 marzo 2012

1361 - Sante Perpetua e Felicita

Perpetua e Felicita erano due donne cristiane che subirono il martirio a Cartagine, sotto l'impero di Settimio Severo (193-211), insieme a Saturo, Revocato, Saturnino e Secondino, anch'essi venerati come santi.
Il resoconto del loro martirio, scritto in latino (Acta Perpetuae et Felicitatis), fu scoperto da Holstenius e pubblicato da Pierre Poussines nel 1663.


Gli Atti, una delle pagine migliori dell'antica letteratura cristiana, sono composti da tre parti:
· i capitoli III–X sono tratti dai diari autografi di Perpetua;
· i capitoli XI-XIII furono scritti da Saturo;
· i restanti capitoli (I-II, XII, XIV-XXI) furono composti da un terzo autore, testimone oculare dei fatti, che alcuni studiosi identificano con Tertulliano.
Nel 1890 Rendel Harris scoprì un altro resoconto scritto in greco, che pubblicò in collaborazione con Seth K. Gifford.
Molti storici ritengono che questo testo in greco sia l’originale, altri postulano la contemporaneità di entrambi i testi, tuttavia l'ipotesi più accreditata è che il testo in latino sia l’originale e quello in greco una mera traduzione.


Chiusa in carcere, aspettando la morte, tiene una sorta di diario dei suoi ultimi giorni, descrivendo la prigione affollata, il tormento della calura; annota nomi di visitatori, racconta sogni e visioni degli ultimi giorni.
Siamo a Cartagine, Africa del Nord, anno 203: chi scrive è la colta gentildonna Tibia Perpetua, 22 anni, sposata e madre di un bambino.
Nella folla carcerata sono accanto a lei anche la più giovane Felicita, figlia di suoi servi, in gravidanza avanzata, e tre uomini di nome Saturnino, Revocato e Secondulo. Tutti sono condannati a morte perché vogliono farsi cristiani e stanno terminando il periodo di formazione; la loro “professione di fede” sarà la morte nel nome di Cristo.
Le annotazioni di Perpetua verranno poi raccolte nella Passione di Perpetua e Felicita, opera, forse, del grande Tertulliano, testimone a Cartagine. Il racconto segnala le pressioni dei parenti (ancora pagani) su Perpetua e su Felicita, che proprio in quei giorni dà alla luce un bambino. Per aver salva la vita basta “astenersi”, ma loro non si piegano.
Questo accade regnando l’imperatore Settimio Severo (193-211), anche lui di origine africana, che è in guerra continua contro i molti nemici di Roma, e perciò vede ogni cosa in funzione dell’Impero da difendere; tutto vorrebbe obbediente e inquadrato come l’esercito.
Con i cristiani si è mostrato tollerante nei primi anni. Ma ora, in questa visione globale della disciplina, che include pure la fede religiosa, scatena una dura lotta contro il proselitismo cristiano e anche ebraico: cioè contro chi ora vuole abbandonare i culti tradizionali. Per questo c’è la pena di morte o morte-spettacolo, spesso, come appunto a Cartagine.
Perpetua, Felicita e tutti gli altri entrano nella Chiesa col martirio che incomincia nell’arena, dove le belve attaccano e straziano i morituri; poi c’è la decapitazione.
Perpetua vive l’ultima ora con straordinarie prove di amore e di tranquilla dignità. Vede Felicita crollare sotto i colpi, e dolcemente la solleva, la sostiene; zanne e corna lacerano la sua veste di matrona ma lei cerca di rimetterla a posto con tranquillo rispetto di sé. Gesti che colpiscono e sconvolgono anche la folla nemica, creando momenti di commozione pietosa. Ma poi il furore di massa prevale, fino al colpo di grazia : era il 7 marzo 203.


Nei Promessi sposi, il Manzoni ha chiamato Perpetua la donna di servizio in casa di don Abbondio; il nome di quel personaggio letterario, così fortemente inciso, è passato poi a indicare una categoria: quella, appunto, delle “perpetue”, addette alla cura delle canoniche.
Cesare Angelini, il grande studioso del Manzoni, ritiene che egli abbia tratto quel nome dal Canone latino della Messa, "dov’è allineato con quelli delle altre donne del romanzo: Perpetua, Agnese, Lucia, Cecilia...".
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