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mercoledì 28 settembre 2011

1116 - L’ornamento delle chiese, segno del creato redento

Propongo un altro articolo di Luigi Codemo:


San Giulio
 Rami ricchi di foglie che partono dalla bocca di volti stilizzati intrecciandosi in un rigoglioso fregio vegetale: è questo, giusto quanto si può ammirare sull’ambone romanico della chiesa di San Giulio sul Lago d’Orta. Un modo eloquente per esprimere che dall’annuncio cristiano scaturiscono parole di vita, parole che fanno crescere e portano frutto.
Follina
A Follina, in provincia di Treviso, c’è un’abbazia cistercense. Il chiostro quadrato è sapientemente costruito sul modello del paradiso terrestre. Di figure e immagini artistiche, secondo il dettato del fondatore Bernardo da Chiaravalle, quasi non c’è traccia. Una delle rare decorazioni è uno stelo con foglie di vite che percorre tutto il perimetro interno del chiostro: è questo un esempio del motivo più semplice di ornamento. Come ha mostrato con le sue ricerche Jurgis Baltrusaitis, la ricchezza infinita di ornamenti vegetali, in gran parte, non è che variazione generata dalla fioritura e articolazione di questo motivo ornamentale elementare composto da un tralcio e una foglia di vite. Collocato lì, nel chiostro configurato come il paradiso terrestre, appare come la matrice del variegato mondo vegetale creato da Dio.
Anche il linguaggio decorativo pagano ha sempre usato dei motivi vegetali per esprimere un mondo salvato dalla caducità e dalla morte.

Ara Pacis
 Ad esempio, l’Ara Pacis, a Roma, è un intrico di volute d’acanto, spighe di grano, capsule di papavero, rami di quercia, edera e vite [vedi foto]. Un modo per celebrare gli effetti della pace di Augusto e l’auspicio al ritorno di una età aurea, una sorta di paradiso terreno, dopo un secolo di lotte e disordini. Il poeta Ovidio, nel 9 a.C., per l’inaugurazione di questo monumento, compose questi versi che cantano l’intimo legame tra la pace, il lavoro e la fertilità della terra: «Per molto tempo vi fu guerra tra gli uomini: la spada al posto dell’aratro, il cavallo e non più toro al giogo. A riposo le zappe, le vanghe trasformate in lance, dal metallo dei pesanti rastrelli si fabbricavano elmi. Ma ora grazie agli dei e alla tua casata da molto tempo la Guerra giace in catene ai nostri piedi» (Ovidio, Fasti I, 697).
Questi versi richiamano le immagini molto simili che il profeta Isaia, vissuto nell’VIII secolo a.C., utilizzava per esprimere l’attesa dell’età messianica: «Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra» (Isaia 2,4).
Se si ha la pazienza di leggere i cartigli che si trovano nelle chiese più antiche, quando ancora si dipingevano i profeti dell’Antico Testamento, capita a volte di leggere questa citazione di Isaia: «si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia» (Is 45,8). Parole che, prefigurando l’incarnazione di Gesù, sono state tradotte in immagini visive.
In una località di nome Susello, vicino a Verbania, c’è una piccola chiesa interamente affrescata. Colpisce il visitatore perché il pittore, Giovanni De Rumo vissuto nel XVI secolo, nel raffigurare le scene tratte dal Vangelo le ha intervallate dipingendo lunghe e festose decorazioni interamente composte da mele, pere, uva bianca e nera, pannocchie, meloni e ogni tipo di foglie e verdura. Un volume sull’arte locale edito da una fondazione bancaria li definisce «di valore principalmente decorativo e di immediata presa sul pubblico (si noti l’ingenuo naturalismo del fregio di fiori e frutti che orna le cornici delle scene affrescate)». Sarà anche ingenuo naturalismo. Ma è una gioia tra quelle volte dipinte portare alle labbra passi di salmi che vedono nella potenza generatrice del creato il desiderio di giungere alla pienezza della rivelazione: «La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 84,12). E davanti alla scena della natività ritratta in questa chiesa non si può non esclamare: «La terra ha dato il suo frutto» (Sal 66,7).
Il più piccolo ornamento che troviamo nelle chiese, fosse anche una sola foglia d’acanto, ci ricorda che, con l’uomo, tutto il creato attende il compimento della redenzione. Lo scrive San Paolo: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,19-23).
La natura, la materia stessa nella sua apparente grettezza, non è inerte e indifferente, ma partecipa della redenzione e, come l’uomo, vive della nuova vita portata al mondo dalla morte e della risurrezione di Gesù. Come l’uomo vive nella speranza del compimento definitivo.
Per l’annuncio cristiano il mondo redento non è il ripristino dell’età aurea come auspicavano i poeti pagani. E non è neppure il regno messianico come immaginato nell’Antico Testamento. Lo si vede nell’abside di San Clemente a Roma: volute di foglie rigogliose nascono dalla croce di Cristo. La croce è il lignum vitae, l’albero della vita. Tralci e foglie nella loro infinita varietà vivono rigogliose e portano frutto perché attaccate all’arbor vitae da cui nascono. Cristo ha detto di sé: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Solo così l’uomo partecipa della redenzione.
È attraverso la croce che vediamo l’albero della vita, e quindi il paradiso.
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