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lunedì 23 aprile 2012

1467 - Vita di Gesù (paragrafi 362-364)


Scopo delle parabole

§ 362. Le parabole di Gesù mirano a presentare il regno di Dio, ossia dei cieli. Nel Discorso della montagna Gesù aveva parlato dei requisiti morali necessari per entrare in quel regno; ma adesso, es­sendo trascorso altro tempo, era necessario fare un ulteriore passo in avanti e parlare di quel regno in sé, della sua indole e natura, dei membri che lo costituivano, del modo come si sarebbe attuato e sta­bilito. Anche sotto questo riguardo, infatti, la predicazione di Gesù seguì un metodo essenzialmente graduale. La ragione di questa gradualità è nella importantissima circostanza storica che già accennammo (§§ 300-301), vera chiave di volta del contegno di Gesù nei confronti della sua vita sociale, cioè nell'an­siosissima aspettativa da parte dei Giudei di un regno messianico-po­litico. Parlare a quelle turbe di un regno di Dio senza schiarimenti e spiegazioni, significava far balenare alle loro fantasie la visione di un celestiale re onnipotente, circondato da falangi di uomini armati e meglio ancora da legioni di angeli combattenti, il quale avrebbe portato Israele di vittoria in vittoria fino alla signoria di tutta la terra, rendendo “maestro e donno” delle nazioni pagane quel po­polo fino allora calpestato da tutti i pagani, e riducendo invece co­storo a sgabello dei piedi di lui (§ 83). Eppure, precisamente a quelle turbe così deliranti Gesù doveva parlare dell'oggetto del loro delirio, e parlare in maniera tale da attirarle e insieme da disingannarle: il regno di Dio indubbiamente doveva venire, si, anzi già aveva co­minciato ad attuarsi, ma non era il “regno” loro, bensì quello di Gesù, totalmente diverso. Perciò la predicazione di Gesù doveva in­sieme mostrare e non mostrare, aprire gli occhi alla verità e chiuderli ai sogni fantastici; era dunque necessaria una prudenza estrema, perché Gesù a questo punto s'inoltrava su un terreno vulcanico che poteva scoppiare da un momento all'altro. Questa amorevole pru­denza fece sì che Gesù si servisse della parabola. La parabola, infatti, è chiara ma anche oscura, è eloquente ma anche reticente. Per chi la contempli con animo sereno e non preoccupato, è chiara ed eloquente; a chi la scruti con occhio torbidoso e con ani­mo prevenuto essa non dice nulla, seppur non dice il contrario di ciò che in realtà vuol dire. E’ dunque, non già tenebra, ma luce, e luce misericordiosamente adatta per occhi che si trovino in condizioni speciali; tuttavia quegli occhi devono esser puri, non già malati, men­tre - come più tardi Agostino esperimenterà in se stessoMa anche nel caso che la parabola non fosse subito compresa, ri­maneva ancora un rimedio. Le parabole di Gesù' erano recitate in pubblico, davanti a gente ben disposta e a gente mal disposta, affin­ché per tutti fosse aperta la porta del regno. Il velame della para­bola era imperiosamente richiesto da misericordia e prudenza; ma rimaneva sempre la possibilità di squarciare quel velame, sottraen­dosi dal dominio pubblico e rivolgendosi in privato all'autore delle parabole. Gesù, se voleva veramente diffondere il suo regno, non avrebbe rifiutato di parlare fuori parabola, qualora fosse stato con­sultato in privato: in privato le ragioni prudenziali che moderavano la predicazione pubblica non esistevano, e quindi il velame poteva essere abolito. 

§ 363. Così in realtà avvenne. Un giorno imprecisato i discepoli gli si avvicinarono e gli chiesero: Perché parli ad essi in parabole? (Matteo, 13, 10). Questa domanda, e la risposta datale da Gesù, sono importantissime; ma per ben valutarle bisogna aver presente che domanda e risposta avvennero certamente non già nella giornata delle parabole, ma ben più tardi, quando cioè Gesù aveva recitato numerose parabole e i discepoli avevano riscontrato ch'esse produce­vano scarso effetto sulle turbe; inoltre, già prima di quella doman­da, i discepoli si erano rivolti in privato a Gesù per chiedere spiega­zioni di parabole udite in pubblico (Matteo, 13, 36; 15, 15) o anche spontaneamente Gesù le aveva spiegate in privato ad essi (Marco, 4, 34). Alla domanda pertanto dei discepoli Gesù rispose: “Perché voi e' stato dato conoscere i misteri del regno dei cieli, quelli in­vece non e' stato dato. Chiunque infatti ha, gli sarà dato e sovrabbonderà: chiunque invece non ha, anche ciò che ha gli sarà tolto. Per questo in parabole parlo loro, perché vedendo non vedono, e udendo non odono nè comprendono; e si compie per essi la profezia di Isaia la quale dice: « udendo udrete, e non comprenderete: ve­dendo vedrete, ma non scorgerete. Divenne infatti crasso il cuore di questo popolo, e con le orecchie difficilmente udirono, e rinserra­rono i loro occhi affinché nonmai scorgano con gli occhi, e con le orecchie odano, e col cuore comprendano e si convertano, e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono, e le vostre orecchie perché odono; ecc. (Matteo, 13, 11-16). Questa risposta è rivolta non soltanto agli Apostoli, ma anche ad altri volonterosi ch'erano insieme con essi (Marco, 4, 10, greco) e avevano fatto uni­tamente la domanda. La differenza tra i volonterosi e gli altri uditori consisteva in ciò, che ai primi era concesso di conoscere il regno in maniera perspicua (i suoi misteri) agli altri invece soltanto sotto il velame della parabola; ma questa differenza non era che la conse­guenza della volenterosità dei primi, i quali interrogando privata­mente Gesù ottenevano l'abolizione del velame parabolico, mentre gli altri rimanevano avviluppati in quel velame perché non aveva­no avuto il desiderio di uscirne tuttavia la porta del regno era aperta agli uni e agli altri, e la sua soglia era rappresentata dalla parabola. Si poteva anche chiedere perché mai soltanto i volenterosi varcavano quella soglia in virtù della loro volenterosità; ma con ciò si sarebbe entrati in una questione ben differente e di sfera assai più alta, per­ché si sarebbe chiamato in causa il principio già enunciato a Nicodemo secondo cui chi non sia nato da... Spirito, non può entrare nel regno d'iddio (§ 288).


§ 364. Tutto ciò è abbastanza chiaro nel testo del dialogo secondo Matteo, salvo un punto che si vedrà subito. Invece il testo degli altri Sinottici, ambedue più brevi, offre una particolare difficoltà, special­mente quello di Marco che suona cosi: A voi e' stato dato (di cono­scere) il mistero del regno d'iddio; per quelli invece (che stanno) fuori(di voi volenterosi) il tutto avviene senza parabole, affinché « ve­dendo vedano e non scorgano, e udendo odano e non com prendano, affinché non mai si convertano e sia rimesso (il peccato) ad essi »(Marco, 4, 11-12). Si è discusso infinitamente su quel primo affinché, che introduce l'anonima citazione di Isaia, per definire se abbia o no un valore finale e intenzionale; la questione deve esser risolta mediante il confronto degli altri due Sinottici, e specialmente di Matteo più ampio di tutti. Gesù nella sua risposta, dopo aver distinto fra i volenterosi e gli altri, si appella a ciò che già era avvenuto al ministero del profeta Isaia citandone le parole. Ma la citazione, nel testo odierno di Matteo, è fatta secondo la versione dei Settanta (certamente dal traduttore greco di Matteo), mentre Gesù citò senza dubbio l'originale ebraico che suona cosi: “E (Dio mi) disse: Va' e dirai a questo popolo udendo udite ma non (sia) che comprendiate, e vedendo vedete ma non (sia) che conosciate!”. Rendi crasso il cuor di questo popolo, e indura le sue orecchie e inungi i suoi occhi affinché non (avvenga che) veda con i suoi occhi e oda con le sue orecchie e comprenda col suo cuore, e (cosi) si converta e (il suo medico) lo guarisca (Isaia, 6, 9-10). Riguardo al vero senso di queste parole non vi può essere alcun ragionevole dubbio. Dio parla qui come tradizionale e amore­vole medico d'Israele, e tenta ancora una volta la guarigione del malato inviando Isaia a curarlo: ma il medico è sdegnato perché il malato si mostra, come sempre, caparbio e di dura cervice, e quindi per scuoterlo e impaurirlo il medico qui parla sarcasticamente e im­piega 1’ammonizione in forma di minaccia. In sostanza egli dice “Giammai una volta che tu ascoltassi e ti lasciassi persuadere! Ebbene, respingendo la mia medicina, resta pure con i tuoi mali af­finchéio non ti guarisca in eterno!” ora; chi non vede che il medico vuole seriamente ed effettivamente guarire, e che l'affinché è un sarcasmo amorevole ed una salutare minaccia, la cui responsabilità cade esclusivamente sul malato? Tanto è vero che, nel caso storico, Dio inviava Isaia per tentare effettivamente la guarigione spirituale d' Israele. Come, dunque, nel dialogo secondo Matteo l'intero tratto va inter­pretato conforme all'originale ebraico di Isaia nominatamente citato, così gli altri due Sinottici vanno interpretati conforme a Matteo e al testo ebraico di Isaia. Questo testo poi, in Luca e Marco, è citato non solo in maniera anonima, ma anche in forma accorciata e in­compiuta: tuttavia siffatta maniera di citare non deve trarre in erro­re, quasi invitasse a limitarsi alle sole parole allegate. Si citava per summa verbaaffinché si riconoscesse esattamente il passo alluso, ma fermo restando che il suo vero senso doveva estrarsi dall'originale dell'intero passo alluso: il quale, come facilmente si poteva presup­porre, era un passo classico nella polemica antigiudaica e variamente impiegato dalla primitiva catechesi cristiana (Giovanni, 12. 40; Atti,28, 26-27; Romani, 11, 8). In conclusione, il disputato affinché con-serva nella citazione di tutti e tre i Sinottici il valore che ha nel­l'originale ebraico di Isaia, e questo valore non è affatto di finalità e di intenzione; bensì d'accorata ammonizione in forma di minaccia salutare.

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