Gesù ad Efraim e a Gerico
§ 494. I maggiorenti Giudei di Gerusalemme presero molto sul serio la denunzia fatta dai testimoni della resurrezione di Lazaro. I Farisei, impensieriti, si rivolsero ai sommi sacerdoti che dovevano decidere in proposito, e fu adunata un'assemblea, alla quale certamente presero parte molti membri del Sinedrio. Fu proposta la questione: Che facciamo? Giacché quest'uomo fa molti portenti! Se lo lasciamo (agire) così, tutti crederanno in lui; e (allora) verranno i Romani e distruggeranno sia il luogo (santo) sia la nazione nostra. I partecipanti all'assemblea non discutono affatto la realtà dei miracoli di Gesù e specialmente dell'ultimo; ma già da tempo comparivano taumaturghi presentandosi quali inviati da Dio e predicando rivoluzioni fra il popolo (§ 433), che Gesù è considerato come uno di essi: anzi egli ha l'aggravante di compiere portenti più numerosi e strepitosi, e quindi tali da attirare anche più l'attenzione dei Romani. Costoro in realtà erano già padroni della Palestina, sebbene non s'immischiassero nelle questioni del luogo (santo), ossia del Tempio, e avessero lasciato alla nazione una certa autonomia interna (§ 22); tuttavia cominciavano già ad essere seccati da quella processione interminabile di taumaturghi rivoluzionari, e forse appunto questo galileo di Gesù li avrebbe indotti a reagire con severità estrema troncando una volta per sempre la fastidiosa processione. Gli eventi immediati si potevano prevedere facilmente: Gesù avrebbe continuato ad operare i suoi sbalorditivi miracoli; le folle sarebbero accorse in massa a lui; tutti d'accordo lo avrebbero proclamato re d'Israele in contrapposto al procuratore di Gerusalemme e all'imperatore di Roma; contro i sediziosi sarebbero accorse le coorti romane di stanza in Palestina ed eventualmente anche le legioni di Siria; sarebbe successa prima una strage di Giudei e poi anche la distruzione del luogo (santo) e della nazione intera. Il pericolo era grave ed imminente: bisognava provvedere subito. All'assemblea partecipava il sommo sacerdote allora in carica, Caifa (§ 52), il quale dopo aver ascoltato per qualche tempo le proposte che venivano fatte, espresse il suo parere con l'imperiosità permessagli dal proprio ufficio: Voi non sapete nulla! Né riflettete che per voi é conveniente che muoia un solo uomo per il popolo, e non perisca l'intera nazione. Caifa non aveva nominato alcuno, ma tutti capirono: il solo uomo che doveva morire per il popolo era Gesù. E’ vero che Gesù non era uno sconvolgitore di popolo e non si era mai occupato di politica; è vero che egli era innocente, come probabilmente avevano fatto notare poco prima anche alcuni dell'assemblea stessa: ma che importava tutto ciò? Se egli moriva, l’intera nazione sarebbe scampata alla rovina, e ciò era ragione sufficiente perché egli morisse. Dicendo questo, Caifa aveva parlato soltanto come uomo politico e nell'interesse della sua casta sacerdotale sadducea, interesse che qui concordava pienamente con quello dei Farisei. Tuttavia l'evangelista scorge nelle sue parole un senso ben più alto, e lo esprime con questa osservazione: Ora ciò non disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote di quell'anno profetò che Gesu' doveva morire per la nazione, e non per la nazione soltanto, ma affinché anche i figli d'Iddio dispersi radunasse (egli) in unità. La frase essendo sommo sacerdote di quell'anno ha dato occasione ad accusare l'evangelista di non sapere che l'ufficio del sommo sacerdote non era annuale. Veramente non si trattava di una notizia peregrina, poiché qualunque lettore dell'Antico Testamento sapeva che quell'ufficio era a vita, sebbene ai tempi di Gesù - come già rilevammo (§ 50) - assai raramente i sommi sacerdoti morissero in carica; perciò Giovanni, avendo presente questo abuso invalso ai suoi tempi, vuole soltanto dire che in quell'anno solenne in cui morì Gesù era Caifa il sommo sacerdote legittimo, e come tale pronunziò quelle parole che a sua insaputa avevano un significato ben più alto di quello da lui inteso. Agli occhi di Giovanni quell'ultimo sommo sacerdote dell'antica Legge decade in quell'anno stesso, in cui è stabilita la nuova Legge per mezzo del Messia Gesù; ma prima di decadere, in forza del suo legittimo ufficio, egli rende omaggio ufficiale all'istitutore della nuova Legge, proclamandolo inconsciamente vittima di salvezza per la nazione d'Israele e per tutte le altre della terra. La decisione presa dall'assemblea fu conforme al suggerimento dato da Caifa: Da quel giorno, pertanto, deliberarono di ucciderlo. Questa deliberazione fu probabilmente comunicata, o agli Apostoli o a Gesù stesso, da qualche persona benevola che l'aveva risaputa. Gesù allora non si mostrò più in pubblico, e allontanandosi dalla zona di Gerusalemme si ritirò con i suoi discepoli in una città detta Efraim, che, riconosciuta già nel secolo IV (cfr. Eusebio, Onomasticon, 90), corrisponde quasi certamente all'odierna Taijibeh, circa 25 chilometri a settentrione di Gerusalemme sui margini del deserto. Era abitudine di Gesù ritirarsi in luoghi solitari alla vigilia di avvenimenti importanti per la sua missione.
§ 495. Ad Efraim Gesù rimane non molti giorni. La Pasqua s'avvicinava, e già cominciavano a passare le prime comitive avviate a Gerusalemme. Nella città santa si aspettava da un momento all'altro l'arrivo anche di lui. Ad ogni modo, per far si che la deliberazione dell'assemblea non rimanesse un vano desiderio, i sommi sacerdoti e i Farisei avevano dato comandi affinché, se alcuno conoscesse dov'era, (lo) indicasse, cosicché lo catturassero (Giovanni, 11, 57). Nonostante questi ordini, uno dei primi giorni del mese Nisan dell'anno 30, Gesù abbandonò il suo ritiro di Efraim e si mise in viaggio verso Gerusalemme seguendo la strada più lunga che a fianco al Giordano passava per Gerico. I discepoli fiutavano nell'aria sentore di tragedia, e ciò li faceva camminare riluttanti sebbene fossero preceduti da chi non mostrava riluttanza: erano nella strada per salire a Gerusalemme, e Gesu' andava avanti a loro, ed (essi ne) stupivano; coloro poi che seguivano, avevano paura (Marco, 10, 32). La carovana era formata come da due gruppi: il primo era degli Apostoli con qualche altro discepolo più antico ed affezionato, e questo gruppo era preceduto da Gesù che camminava distaccato in avanti tutto solo, tanto che essi ne stupivano; il secondo gruppo, di quelli che seguivano a qualche distanza, era formato da altri discepoli più recenti, mescolatisi forse con pellegrini pasquali che già conoscevano Gesù e s'interessavano di lui: soprattutto i componenti di questo secondo gruppo avevano paura. Lontano, verso destra, si proilavano le colline di Gerusalemme. A un certo punto Gesù, fattisi venire dappresso con un gesto i dodici Apostoli, cominciò a dir loro le cose che stavano per accadergli:”Ecco, saliamo a Gerusalemme, e il figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli Scribi, e lo condanneranno a morte, e lo consegneranno ai pagani, e lo beffeggeranno e lo sputacchieranno e lo flagelleranno e uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà”. L'annunzio non era nuovo (§ § 400, 475), ma in quelle circostanze era opportunamente rinnovato: essendo imminente il tempo in cui Gesù avrebbe palesato universalmente la sua qualità di Messia, era opportuno richiamare alla memoria le precedenti rettificazioni messianiche. Ma anche quella volta esse giovarono ben poco. Luca (18, 34) pazientemente ci fa sapere che i dodici non capirono nulla di queste cose, ed. era questa sentenza nascosta per essi; e non conoscevano le cose che erano dette. Quanto fosse grossolana e massiccia questa incomprensione apparve in una scenetta avvenuta subito appresso.
§ 496. Fra i convocati da Gesù che non capirono nulla del suo annunzio, erano i due fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, mentre nel secondo gruppo che seguiva Gesù si trovava la loro madre, ch'era forse una di quelle buone massaie che provvedevano alle necessità materiali dei cooperatori di Gesù (§ 343). L'annunzio di Gesù dovette essere comunicato dai figli alla madre e ampiamente commentato da tutti e tre nella maniera più rosea e più falsa: si dovette parlare di Messia dominatore, di vittorie, di gloria, di trono, di corte e cortigiani, e degli altri sogni cari al messianismo politico: e giacché il tempo stringeva, i tre interlocutori giudicarono opportuno fare qualcosa per assicurarsi buone posizioni. Ecco perciò che, poco dopo, la madre accompagnata dai due figli si presenta umile e riverente a Gesù per rivolgergli una domanda; trattandosi di cosa assai importante, parlarono tutti e tre insieme interrompendosi tra loro, cosicché mentre Matteo (20, 20 segg.) attribuisce l'interrogazione alla madre, Marco (10, 35 segg.) l'attribuisce ai figli. - Che vuoi? Che volete? - dice Gesù. E allora la donna, aiutata dai figli, espone la domanda. Adesso che Gesù fonderà il suo regno a Gerusalemme, non dovrà trascurare quei due bravi giovanotti; essi gli sono stati sempre affezionati, e per amor suo hanno perfino abbandonato la casa e le barche del loro padre; dunque Gesù si mostri riconoscente, e nell'assegnare ai suoi seguaci i posti nella corte messianica collochi l'uno alla destra e l'altro alla sinistra del proprio trono; e per se stessa la madre non chiede niente, ma spera che prima di morire non le sia negata questa giusta consolazione di vedere i suoi due giovanotti nei migliori posti a fianco del Messia glorioso. La donna, rincalzata dai figli, ha finito di parlare. Gesù guarda a lungo tutti e tre, e poi con infinita pazienza dice ai giovani: Non sapete quel che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati del battesimo onde io sono battezzato? La gloria del Messia verrà, si, ma prima egli deve bere un calice e ricevere una « immersione » che corrispondono appunto al tragico annunzio da lui dato testé agli Apostoli: prima della vita gloriosa, vi sarà la morte ignominiosa, e potranno essi affrontarla? I due giovani, con la baldanza dei fiduciosi, rispondono: Possiamo! Gesù inaspettatamente dà loro ragione, ma nello stesso tempo respinge la loro richiesta: Si, si, berrete il mio calice e riceverete il mio battesimo, ma non è in poter mio farvi sedere a destra o a sinistra: i posti saranno occupati da coloro per cui sono stati preparati dal Padre celeste. - L'annunzio del calice e del battesimo allude alle future prove dei due Apostoli (§ 156, nota): il restante della risposta distingue ciò che gli interroganti avevano confuso insieme, cioè il regno del Messia sulla terra e quello glorioso nei cieli. Il primo è nel “secolo” presente e sarà pieno di travagli e di persecuzioni (§ 486); il secondo si inaugurerà alla rigenerazione, e sarà prodotto dalla pazienza mostrata nei travagli e nelle persecuzioni del “secolo” presente: allora il figlio dell'uomo sederà sul suo trono di gloria, ma gli altri seggi ai lati di quel trono saranno assegnati dal Padre celeste. Il dialoghetto ebbe un seguito. Gli altri Apostoli riseppero della cupida richiesta fatta a Gesù, e nella loro gelosia s'indignarono contro i richiedenti, mostrando così di condividerne le ambizioni. Gesù, radunati nuovamente attorno a sé i contendenti, li ammonì mostrandosi anche su questo punto il moralista capovolgitore (§ 318): fra le nazioni pagane i governanti spadroneggiano sugli altri e fanno sentire su loro il peso della propria autorità, ma fra i seguaci di Gesù chi vuol essere maggiore degli altri diventi minore e chi vuol primeg giare diventi Io schiavo di tutti, a imitazione appunto di Gesù che non venne ad esser servito ma a servire, e a dar la sua vita a riscatto (da schiavitu') in favore di molti (Matteo, 20, 25-28). Gesù si era già presentato come buon pastore che serve tutta la giornata il suo numeroso gregge e dà la propria vita per esso (§ 434); qui egli riprende quest'ultima idea ed afferma che dà la sua vita a riscatto della schiavitù in favore dei molti suoi seguaci. E’ la dottrina su cui particolarmente insisterà più tardi S. Paolo.
§ 497. Seguendo la strada suddetta, Gesù giunse a Gerico. L'aristocratica città contemporanea era un vero luogo di delizie specialmente d'inverno, perché vi aveva ampiamente esercitato la sua passione di grande costruttore ellenistico Erode il Grande, e dopo di lui in minor parte anche suo figlio Archelao: vi si ammiravano un anfiteatro, un ippodromo, una reggia sontuosà totalmente ricostruita da Achelao, e ampie piscine ove confluivano le acque dei dintorni. Ma il posto di questa città non era quello dell'antica, la vecchia Gerico cananea, le cui rovine si trovavano a circa due chilometri più a settentrione, presso la fontana di Eliseo: le esecrate rovine della città distrutta da Giosuè erano rimaste lungo tempo disabitate, ma la vicinanza della preziosa fonte vi aveva poi richiamato gente e provocato il sorgere d'un certo numero d'abitazioni che ai tempi di Gesù valevano come sobborgo della Gerico contemporanea (cfr. Guerra giud., Iv, 459 segg.). Chi dunque scendeva dal settentrione, come qui Gesù, passava prima attraverso questo sobborgo formatosi presso la Gerico antica, e dopo appena una mezz'ora di cammino entrava nella città erodiana, situata davanti all'imbocco della stretta valle (wadi el-Qelt) ove s'immetteva la strada per Gerusalemme. Durante questo passaggio di Gesù avvenne un fatto narrato con interessanti divergenze dai tre Sinottici (Matteo, 20, 29 segg.; Marco, 10, 46 segg.; Luca, 19, 35 segg.). Secondo Matteo e Marco il fatto avvenne quando Gesù era uscito da Gerico; secondo Luca, quando egli vi si avvicinava. Inoltre, il fatto consiste secondo Marco e Luca nella guarigione di un cieco, che in Marco è chiamato Bartimeo, “figlio di Timeo”; al contrario, secondo Matteo, furono guariti due ciechi. - La questione è antica, e ne furono proposte varie soluzioni, anche poco o nulla fondate; una di queste ultime è che i ciechi sarebbero stati tre, uno all'entrata in Gerico e due all'uscita. La soluzione migliore sembra esser quella che tiene conto della doppia Gerico, l'antica e l'erodiana: di un viandante che faceva il breve tragitto dall'una all'altra si poteva ben dire tanto che era uscito da Gerico (antica) quanto che si avvicinava a Gerico (erodiana). Quanto al numero dei ciechi guariti, se uno o due, la divergenza non è nuova, perché già la trovammo a proposito dell'energumeno di Gerasa che secondo il solo Matteo aveva un compagno (§ 347); anche qui il solo Matteo enumera due ciechi innominati. Trasferendosi mentalmente a quei tempi, la divergenza si comprende: già notammo che in Palestina i ciechi spesso si uniscono a coppia per mutuo aiuto (§ 351), e il cieco più intraprendente della coppia ne è quasi la personificazione comune, mentre l'altro rimane come nascosto all'ombra di lui; qui si aveva la personificazione rappresentata da Bartimeo, ma l'accurato Matteo ricorda che questa personificazione comune era composta da due individui. Bartimeo dunque, assistito dal compagno minore, stava a limosinare lungo la strada. Sentendo dal calpestio che passava un folto gruppo di gente, domandò chi fossero; gli fu risposto che passava Gesù il Nazareno, certamente a lui già noto per la fama dei suoi miracoli. Ambedue i ciechi allora si dettero a gridare: Signore, abbi pietà di noi, figlio di David! Quelli della comitiva dettero loro sulla voce affinché tacessero, ma i due tanto più alzavano le loro grida insistendo nell'implorazione. A un tratto Gesù si fermò e dette ordine che gli fossero condotti vicino. I circostanti andarono da Bartimeo con una parola piena di speranza: Coraggio! Alzati! Ti chiama! Egli, gettato via il suo mantello, saltò su e seguito dal compagno minore andò da Gesù. Gesù chiese loro: Che volete che vi faccia? - Che può desiderare un cieco? Bartimeo rispose: Rabboni, che ci veda! E tutti e due, più e più volte insieme: Signore, che si aprano gli occhi nostri! Gesù allora disse: Va', la tua fede ti ha salvato! Era la stessa risposta, in sostanza, già data ai due ciechi di Cafarnao (§ 351). Toccati i loro occhi, ambedue furono guariti all'istante, e subito si unirono con la comitiva che seguiva Gesù.
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