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giovedì 23 febbraio 2012

1330 - Vita di Gesù (paragrafi 310-314)

I dodici Apostoli


§ 310. Sull'orizzonte della vita di Gesù si era profilata oramai netta­mente una nuvola, ancora abbastanza lontana, ma annunziatrice si­cura di tempesta: la nuvola dei Farisei. Nè c'era da dubitare sui suoi effetti, giacché il recente caso di Giovanni il Battista dimostrava quale fosse la sorte di chi finiva ravvolto in quella nuvola. Gesù quin­di provvide ai ripari, non già per la sua propria persona, bensì per la sua opera. Dall'inizio della sua vita pubblica erano già passati vari mesi, forse un sei o sette, e la sua operosità nella Galilea gli aveva procurato molti e cordiali seguaci. Da costoro egli avrebbe tratto le pietre fon­damentali del suo edificio morale, e collocandole in opera avrebbe cominciato a tirar su quella casa che doveva resistere allo scaricarsi della nuvola. Più tardi l'evangelista teologo rifletterà: Nella (casa) propria (egli) venne, e i propri (familiari) non lo accolsero! (Giov., 1, 11). Eppure le antiche Scritture avevano predetto che il Messia sarebbe comparso nella casa d'israele, per far sì che proprio essa divenisse la casa co­mune di Dio e degli uomini, e tutti gli uomini indistintamente potes­sero affermare “ (Dio) s'attendò fra noi!” (Giov., 1, 14); ma poiché la sua casa naturale non lo accoglieva, il Messia cominciava a segre­garsi da essa e gettava i fondamenti della casa umano-divina ch'era lo scopo della sua missione: il rifiuto dei familiari che si rinnovasse la vecchia costruzione fatiscente costringeva il rinnovatore a predi­sporre una costruzione tutta nuova. A rigore un vero scisma ancora non era: erano tuttavia provvedimenti in vista d'uno scisma. Fra i seguaci ordinari di Gesù alcuni già erano in condizioni di par­ticolare aderenza e comunanza col maestro: tali Simone Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo (§ 302), poi anche Levi cioè Matteo (§ 306), Filippo e Nathanael ossia Bartolomeo § 279-280). A questi sette furono aggiunti altri cinque, che certa­mente seguivano già da qualche tempo Gesù senza però che a noi risulti quando fossero entrati in relazione con lui. La scelta di questi dodici è posta da Marco (3,13-19) e da Luca (6, 12-16) prima del Discorso della montagna, e questa collocazione è senza dubbio giu­sta cronologicamente; Matteo (10, 1-4) enumera i dodici dopo il Discorso della montagna, in occasione della loro missione temporanea nelle città d'Israele, ma non dice che la loro scelta avvenisse allora, ché anzi dalla narrazione risulta ch'era avvenuta in precedenza.


§ 311. Prima di questo singolare atto della sua missione, come già prima d'iniziare la sua vita pubblica, Gesù si appartò nella montagna a pregare, e stava pernottando nella preghiera d'iddio. Quando poi si fece giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e si prescelse da essi dodici, che nominò pure apostoli (Luca, 6, 12-13). La parola apostolo significava in greco “inviato”, e corrispondeva etimologicamente all'ebraico shaluah. o shaliah e all'a­ramaico shaluha; era quindi un “apostolo” nella vita civile chi era inviato a trattare d'un matrimonio o di un divorzio, sia a comuni­care una decisione giudiziaria, come erano stati “apostoli” nella vita religiosa i profeti e gli altri inviati di Dio. Anche il Sinedrio di Ge­rusalemme aveva suoi “apostoli”, ed erano quei messi di cui esso si serviva per far pervenire le sue notificazioni alle varie comunità (§ 58) specialmente della Diaspora (cfr. Atti, 9, 1-2; 28, 21); sembra anzi che questi “apostoli” continuassero a funzionare anche dopo la distruzione di Gerusalemme, quando le supreme autorità giudai­che si erano stabilite a Jamnia. Ma fra gli “apostoli” ordinari del giudaismo (astraendo cioè dai profeti e da altre antiche manifestazioni carismatiche) e gli Apostoli istituiti da Gesù non c'era niente di comune, fuori del nome. I primi erano dei semplici incaricati e rappresentavano una data persona in un ben determinato affare (tal senso anche in Giovanni, 13, 16), co­me anche potevano essere umilissimi portatori materiali di messaggi ossia portalettere: tutti quindi rispondevano bene al titolo di “inviati”, senza però essere inclusi in una vera istituzione giuridica. I secondi invece costituivano una precisa istituzione permanente, mentre in un senso altrettanto vero ma ben più nobile erano “inviati” perché dovevano essere i portatori materiali e spirituali della “buona novella” (§105 segg.). Il loro numero di dodici aveva un'evidente analogia con i dodici figli d'Israele e con le dodici tribù che ne erano discese per formare la nazione già prediletta dal Dio Jahvè: poiché la casa d'Israele minacciava ora di non accogliere il Messia di Jahvè che ad essa ve­niva, la nuova casa impiantata dal Messia a sostituzione di quella avrebbe avuto a sua direzione egualmente dodici capitribù spiri­tuali. Ciò sarebbe stato un memoriale dell'èra passata e una testi­monianza per l'èra futura; e questo numero di dodici fissato da Gesù fu tenuto in tanto onore nella prima generazione cristiana, che non solo essa v'incluse immancabilmente anche il nome del traditore Giuda, ma quando costui mori la prima cura del capo dei dodici, Pietro, fu di sostituire il morto con un nuovo dodicesimo apostolo e cosi reintegrare il numero solenne (Atti, 1, 15-26). Assai più spesso infatti che col nome di “apostoli” essi sono designati nel Nuovo Testamento con quello di “dodici” (34 volte contro 8).


§ 312. L'elenco dei dodici è dato quattro volte, cioè dai tre Sinottici Matteo, 10, 2-4; Marco, 3, 16-19; Luca, 6, 14-16) e dagli Atti (1, 13). Nessuno dei quattro elenchi concorda in tutto con un altro ri­guardo alle serie con cui sono nominati i dodici, neppure gli elenchi di Luca e degli Atti che sono dello stesso autore; tuttavia vi si riscon­trano le seguenti disposizioni costanti. Simone (Pietro) è sempre no­minato per primo, e Giuda il traditore sempre per ultimo (salvo che in Atti, essendo già morto); inoltre i dodici sono sempre elencati in tre gruppi formati da quattro nomi, e costantemente in cima al primo gruppo è nominato Simone, in cima al secondo Filippo, in ci­ma al terzo Giacomo figlio d'Alfeo. Ecco l'elenco com'è dato da Matteo: Simone detto Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo (figlio) di Zebedeo, Giovanni suo fratello; Filippo, Bartolomeo, Tommaso, Matteo il pubblicano; Giacomo (figlio) d'Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo, Giuda Iscariota il traditore. Soltanto il terzo gruppo mostra al confronto con gli altri elenchi variazioni di nomi, trattandosi certamente del caso allora frequente fra i Giudei di avere due nomi. Invece di Taddeo, che in qualche manoscritto riceve la forma di Lebbeo, appare in altri elenchi un Giuda (figlio) di Giacomo, che è però la stessa persona di Taddeo. Come l'aggiunta patronimica di Giacomo serviva a distinguere que­sto Giuda dall'omonimo traditore, cosi l'aggiunta il Cananeo serviva a distinguere il secondo Simone dall'omonimo Pietro. Questo appel­lativo Cananeo è una semplice trascrizione dall'aramaico, ma in al­tri elenchi esso appare tradotto con zelota, come già rilevammo (§ 43); ad ogni rnodo l'appellativo ha qui il suo senso etimologico originale e non quello storico più tardivo, né implica che questo Si­mone appartenesse al partito degli Zeloti, i quali del resto intensifi­carono la loro operosità solo più tardi.


§ 313. Se Bartolomeo è effettivamente la stessa persona che Natha­nael (§ 280), i primi sei di questo elenco ci sono già noti: cosi pure l'ottavo, cioè Matteo. Degli altri non abbiamo precise notizie circa il tempo e l'occasione in cui si misero al seguito di Gesù: soltanto sappiamo che Giacomo figlio d'Alfeo, ossia Giacomo il Minore (men­tre “il Maggiore” è Giacomo figlio di Zebedeo), aveva per madre una Maria e per fratelli un Giuseppe, un Simone, e un Giuda (cfr. Marco, 15, 40; Matteo, 13, 55; 27, 56) e che era chiamato “fratello del Signore” (§ 264); probabilmente per quest'ultima ragione gli è serbato sempre il primo posto nel gruppo degli ultimi quattro. Il nome Tommaso è grecizzato dall'aramaico toma, che significa “gemello”; perciò al nome è aggiunta la sua traduzione greca, da Giovanni (11, 16; 20, 24). Il traditore Giuda è distinto con l'appellativo Iscariota, ma da Giovanni (6, 71, greco) apprendiamo che Iscariota era chiamato anche Simo­ne padre di Giuda; era dunque una designazione trasmessa di padre in figlio. Quasi certamente l'appellativo è una trascrizione dell'e­braico 'ish Qerijjoth, “uomo di Qerijjoth”, ed è perciò un ap­pellativo geografico riferentesi alla città della Giudea chiamata Qe­rijjoth (cfr. Giosue', 15, 25) da cui provenivano gli antenati di Giu­da. Nell'elenco di Marco (3, 17) si legge che ai due fratelli Giacomo e Giovanni fu imposto da Gesù il nome di Boanerge's cioe' figli del tuono. L'appellativo non è etimologicamente chiaro, e oggi è difficile riportarlo ad una forma semitica. La meno improba­bile sembra essere bene-rigsha, “figli del fragore”. Il solo Marco ri­ferisce questo appellativo, in occasione dell'elenco degli Apostoli: certamente però esso non fu attribuito in questa elezione, ma solo più tardi quando in varie circostanze dovette apparire il carattere impetuoso e ardente dei due giovani che lo provocò; una di tali occasioni fu verosimilmente quando Giacomo e Giovanni volevano invocare fuoco dal cielo per incenerire i Samaritani che rifiutavano ospitalità a Gesù (Luca, 9, 54).


§ 314. Quanto alla condizione sociale e al grado culturale dei dc­dici possiamo concludere, da qualche vago accenno della loro condotta successiva, che essi in genere appartenevano a quel ceto socia­le del giudaismo che stava un poco sotto alla classe media dei piccoli possidenti e parecchio sopra alla classe infima dei veri poveri. Era un ceto che non ha un esatto riscontro nelle nostre condizioni so­ciali odierne, ma che all'ingrosso si potrebbe riavvicinare al piccolo commerciante o al basso impiegato. Il lavoro manuale, di pesca o altro, era abituale, come del resto era comune anche fra i rabbini dedicati allo studio della Legge (§167), ma la sua necessità economica non era così imperiosa come presso di noi; le condizioni generiche della vita permettevano d'astenersi dal lavoro anche per molti giorni di seguito, e simili astensioni tanto più erano permesse a coloro che avevano una base economica mi­gliore, per esempio ai membri della famiglia di Zebedeo che eserci­tavano una industria peschereccia piuttosto ampia. Non è arrischiato supporre che, sotto l'aspetto economico, la famiglia di Gesù fosse in condizioni meno agiate che le famiglie di tutti o quasi tutti gli Apostoli. Del resto le esigenze materiali erano poche, e con poco si viveva senza desideri e rimpianti. In compenso, molti di questo ceto così modesto s'interessavano vi­vamente di problemi spirituali, specialmente se avevano attinenza con argomenti religiosi e nazionali. Si lasciavano volentieri gli agi della propria casetta per prender parte ad una discussione, per ascol­tare un celebre maestro, per andare addietro anche vari giorni di se­guito ad un potente dominatore di turbe. Ciò che s'imparava in que­sti incontri era custodito amorosamente nell'archivio preferito dai Semiti, quello della memoria (§ 150), e forniva argomento a con­tinue riflessioni personali e a frequenti dispute collettive, e così si formava il principale patrimonio culturale di questo ceto. Il quale leggeva e scriveva poco, senza però che tutti vi fossero analfabeti: l'analfabetismo in Palestina dovette imperversare molto più dopo la catastrofe del 70 che prima di essa; alle singole sinagoghe, prima della catastrofe, era per lo più annessa una scoletta elementare (§ 63) e bene o male molti imparavano le lettere, sebbene in seguito se ne servissero poco. Di questa condizione sociale e levatura culturale erano, in genere, i dodici scelti da Gesù, pur ammettendo che taluno di essi emergesse alquanto fra gli altri. Già rilevammo, ad esempio, che l'antico pub­blicano Matteo fu scelto a mettere in iscritto la catechesi aposto­lica probabilmente appunto per la sua maggiore perizia nello scri­vere (§ 117); inoltre, se i Greci che volevano conoscere personal­mente Gesù si rivolsero per tale scopo a Filippo (Giovanni, 12, 20-21, greco) l'apostolo dal nome greco, si può congetturare che questo apostolo si segnalasse fra i suoi colleghi per cultura o condizione so­ciale (§ 508). I caratteri personali dei dodici variavano naturalmente da individuo a individuo: all'impetuoso Simone Pietro pare che somigliasse ben poco suo fratello Andrea, che doveva esser d'indole calma e serena, né i due figli del tuono avevano molte analogie con Tommaso lo sfiduciato e il diffidente (Giovanni, 11, 16; 14, 5; 20, 25). Quando si dettero a seguire Gesù erano certamente accesi da vivo affetto e da entusiasmo per lui, ma nelle loro intime personalità erano rimasti uomini come tutti gli altri, e presi in complesso rappresentavano più o meno l'umanità intera. Anche per questo non poteva mancare il traditore.
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