§ 166. Che l'autore del IV vangelo sia un Giudeo d'origine, appare anche dal suo stile e dal suo modo d'esporre; tanto che alcuni moderni hanno supposto, esagerando, ch'egli abbia scritto originariamente in aramaico. In realtà egli spesso impiega, oltre ad espressioni semitiche, come godere di gaudio (3, 29), figlio della perdizione (17, 12), ecc., anche voci semitiche, ma che regolarmente traduce in greco per farsi capire dai suoi lettori, come Rabbì e Rabbonì (1, 38; 20, 16), Messia (1, 41), Kefa (1, 42), Siloam (9, 7), ecc. Anche il periodare è grecamente povero, elementare, alieno da ogni costruzione complessa e subordinata; ma, al contrario, vi si osserva una spiccata tendenza a quel parallelismo di concetti che è base della forma poetica ebraica. Ad esempio: Non è servo maggiore del signore di lui, nè messo maggiore di chi inviò lui... Chi accoglie alcuno, se io lo mando, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie chi inviò me (13, 16... 20) La donna, quando partorisca, ha tristezza, perché venne l'ora di lei: ma quando partorì il bambino, piu' non rammenta l'angustia per il gaudio che è nato un uomo nel mondo (16, 21) Ia forma paratattica e slegata rende spesso difficile di rintracciare l'occulta connessione dei pensieri; ma, in compenso, il suo procedere sentenzioso e solenne infonde a tutto il discorso un'arcana maestà ieratica, che colpisce il lettore fin dal principio dello scritto: In principio era il Logos, e il Logos era presso Iddio ed era Dio il Logos. Costui era in principio presso Iddio: tutte le cose per mezzo di lui furono, e senza lui non fu neppure una cosa ch'e stata. In lui era Vita, e la Vita era la Luce degli uomini: e la Luce nella Tenebra apparve, e la Tenebra non la comprese... Era la Luce vera, la quale illumina ogni uomo venendo (ella) nel mondo. Nel mondo era, e il mondo per lui fu, e il mondo non lo conobbe... E il Logos carne divenne, e s'attendò fra noi (1, 1... 14).
§ 167. Ma appunto questo solennissimo inizio è servito da inizio a un lungo elenco di difficoltà. Come poteva l'incolto pescatore di Bethsaida elevarsi a concetti cosi sublimi? Come poteva, egli solo fra tutti gli scrittori del Nuovo Testamento, spingersi a proclamare l'identità dell'uomo Gesù non solo con il Messia ebraico ma perfino con l'eterno Logos divino? In qual maniera passò egli, dalle astuzie della pesca, a speculare sulle finezze concettuali di quel Logos di cui tanto avevano ragionato l'antica filosofia greca e la contemporanea alessandrina? Come mai il Gesù da lui tratteggiato è cosi diverso da quello dei Sinottici, e cosi trascendente, cosi “divino”? Donde provengono quei discorsi di Gesù, così ampi e così ricchi di astrazioni e allegorie? Donde quei dialoghi in cui gl'interlocutori di Gesù fanno la figura di pulcini che si sentano sollevati tra le nuvole dall'artiglio dell'aquila, e sbalorditi rispondono con goffaggini, come fanno Nicodemo e la Samaritana, e spesso gli stessi discepoli? Queste e molte altre considerazioni sono fatte, per poi concluderne che tutto lo scritto non può essere opera del pescatore di Bethsaida: esso quindi riassumerà le mistiche speculazioni di qualche solitario filosofo che ha religiosamente idealizzato il Gesù storico, non senza impiegare concetti che provenivano dal platonizzante giudaismo alessandrino, o dal sincretismo ellenistico, o dalle religioni misteriche, o anche dal Mandeismo. Che questa attribuzione ad uno sconosciuto sia in contrasto con le più antiche testimonianze storiche, è cosa più che evidente; ma ciò non disturba i suoi sostenitori, i quali non attribuiscono molto peso a quelle testimonianze, salvo che esse sembrino deporre in loro favore, come nel caso del presunto martirio di Giovanni (§ 156) giacché in casi siffatti quegli abituali scettici dei documenti si precipitano su testi miserevolissimi millantandone l'mportanza. Ad ogni modo si può domandare perché mai nelle condizioni del solitario filosofo sconosciuto non possa essersi ritrovato proprio Giovanni di Bethsaida. Egli era pescatore, è vero: ma da accenni dei vangeli sembra che suo padre Zebedeo fosse un agiato possessore di barche, e quindi poteva aver fatto impartire a suo figlio una certa istruzione metodica. Checché sia di ciò, era perfettamente nelle abitudini palestinesi coltivare l'erudizione e nello stesso tempo praticare un mestiere. S. Paolo lavorava con le sue mani; e prima e dopo di lui lavorarono il celebre Hillel che guadagnava solo mezzo “denaro” al giorno, e Rabbi Aqiba ch'era spaccalegna, e Rabbi Joshua ch'era carbonaio, e Rabbi Meir ch'era scrivano, e Rabbi Johanan ch'era calzolaio, e tanti altri che formarono tra i dottori talmudici la maggioranza, mentre la minoranza era formata da uomini facoltosi che non avevano bisogno di esercitare un mestiere. Se l'ardente Giovanni, vero figlio del tuono (Marco, 3, 17), si rnise ancor giovanissimo alla sequela dapprima di Giovanni il Battista e poi di Gesù, poté restar privo di quest'ultimo maestro nell'età di poco più che vent'anni. Allora egli, fedele alle usanze della sua regione, si concentrò nello studio della Legge, ma non già di quella investigata nelle contemporanee scuole rabbiniche, bensì di quella nuova Legge di perfezione e di amore ch'era stata proclamata dal suo ultimo maestro, e i cui ricordi - anche senza ch'egli scrivesse nulla - si conservavano nettissimi nel suo spirito. Nell'archivio della memoria, ch'era l'unico archivio che funzionasse anche nelle scuole rabbiniche d'allora (§§ 106, 150), Giovanni poté svolgere durante lunghissimi anni un amoroso lavorio attorno a quei tesori depositativi dallo scomparso maestro; il quale, come aveva avuto per il giovanissimo discepolo una predilezione particolare, così' doveva avergli fatto confidenze e comunicazioni particolari. Da questo lavorìo di redazione mentale e di pratica sistemazione sorse la “catechesi” particolare a Giovanni, diversa ma non contraria a quella di Pietro e dei Sinottici, parzialmente suppletiva rispetto ad essa, parzialmente esplicativa, e soprattutto meglio rispondente alle nuove condizioni esterne del messaggio cristiano.
§ 168. Anche la catechesi di Giovanni, infatti, già elaborata mentalmente prima di essere scritta, deve aver vissuto vari decenni di vita soltanto orale. Mentre il discepolo meditava sui ricordi del maestro, li comunicava anche ai fedeli affidati alle sue cure, dapprima in Palestina, e poi in Siria e in Asia Minore. Ora, in questi nuovi campi d'azione Giovanni, inoltrato ormai negli anni e sempre più autorevole per la graduale scomparsa degli altri Apostoli, incontrava ostacoli di nuovo genere; non si opponevano più le vecchie conventicole di cristiani giudaizzanti che tanto avevano molestato Paolo, bensi' erano le varie correnti di quella gnosi, in gran parte precristiana, che sul declinare del secolo I cominciavano ad infiltrarsi nell'alveolo del cristianesimo. Contro tali correnti bisognava far argine; e Giovanni, dai forzieri dei suoi ricordi, estraeva sempre nuovi e più adatti materiali per rendere particolarmente efficace la sua propria catechesi contro la nuova minaccia. Un certo giorno - come possiamo già astrattamente supporre, e come effettivamente attestano il Frammento Muratoriano e Clemente Alessandrino (§§ 159,160) - i discepoli del vegliardo lo forzano amorevolmente per ottenere in iscritto la parte essenziale di quella sua catechesi. Giovanni la detta; ma in fondo a tutto lo scritto sarà apposta, a guisa di sigillo, una dichiarazione collettiva d'autenticità rilasciata unitamente da chi aveva concesso e da chi aveva richiesto lo scritto Costui e' il discepolo che testimonia circa queste cose e scrisse queste cose: e (noi) sappiamo che vera e' la testimonianza di lui (21, 24).
§ 169. Questa preistoria spiega l'indole speciale dello scritto di Giovanni, già chiamato il vangelo spirituale per eccellenza. In tutte le maniere esso fa risaltare la trascendenza e la divinità del Cristo Gesù, perché questo era il principale suo scopo (20, 31) contro la gnosi di provenienza pagana: di qui il suo particolare carattere. Ma la medesima tesi, sviluppata più parcamente o anche solo appena abbozzata, si ritrova già nei Sinottici, e specialmente in Marco brevissimo fra tutti, com'è riconosciuto da parecchio tempo da critici radicalissimi (i quali perciò scompongono Marco in vari strati, ripudiandone le parti “soprannaturali” e “dogmatiche”). Giovanni avrà enormemente accresciuto, ma non ha innovato; fra le moltissime cose che si sarebbero potute dire di Gesù (cfr. 21, 25), egli studiosamente trascelse taluni particolari fino al suo tempo non detti ma proprio allora opportunissimi a dirsi, senza però inventarli, e li unì' con altre notizie già comuni e diffuse. Ne risultò un Gesù più illuminato di luce divina, ma fu in conseguenza della scelta di Giovanni: come il Gesù dei Sinottici è figura più umana, ma egualmente in conseguenza della scelta dei Sinottici. Ciascun biografo ha delineato il biografato dal punto di vista da cui lo ha contemplato: e lo ha delineato tutto, sebbene non totalmente, perché nessuno di essi ha preteso riprodurre tutti i singoli tratti della sua figura. Se i discorsi e i dialoghi di Gesù nel IV vangelo sono straordinariamente elevati, non per questo sono meno storici di quelli dei Sinottici. Sarebbe antistorico supporre che Gesù parlasse in un medesimo tono sempre e in ogni occasione, sia quando si rivolgeva ai montanari della Galilea con cui lo fanno parlare di solito i Sinottici, sia quando discuteva con i sottili casuisti di Gerusalemme, con cui per lo più lo fa pariare Giovanni. Prescindendo poi dall'elevatezza dei concetti, il metodo seguito nelle discussioni con gli Scribi e i Farisei mostra numerose analogie con i metodi seguiti nelle dispute rabbiniche di quei tempi: dotti Israeliti moderni, particolarmente versati nella conoscenza del Talmud, hanno sagacemente rilevato siffatte analogie, considerandole come una collettiva conferma del carattere storico dei discorsi del IV vangelo. Anche rivolgendosi ai suoi discepoli, Gesù deve aver parlato in toni differenti: più semplicemente ai primi tempi in cui lo seguivano, più complessamente in seguito, per sollevarsi fino ad altezze non mai ancora raggiunte pronunziando il discorso di commiato all'ultima cena. Inoltre, fra i discepoli stessi egli dovette avere i suoi intimi e prediletti, a cui doveva riservare confidenze che non comunicava agli altri (cfr. 13, 21-28): intimo fra questi intimi era, come già sappiamo, Giovanni, il quale perciò, anche dal semplice punto di vista storico, fu un testimonio superiore ad ogni altro.
§ 170. E questo singolare testimonio comincia il suo scritto affermando che Gesù è il divino Logos fattosi uomo. Ma anche in questa affermazione egli mostra il suo senso storico, sebbene applicato ad una visione teologica dei fatti: quel Logos che è dall'eternità presso Dio, è diventato uomo pochi anni fa, e contemplammo la gloria di lui, gloria come di unigenito da Padre (1, 14). Giammai però il verace testimonio, scrupoloso nella sua storicità, afferma che Gesù si sia chiamato da se stesso Logos: egli solo, Giovanni, lo chiama con questo nome, sia nel prologo al vangelo, sia in quella sua lettera che si può ben considerare come uno scritto d'accompagnamento al vangelo (I Giovanni, 1,1), sia nell'Apocalisse (19, 13). In tutto il Nuovo Testamento il termine personale Logos occorre in questi tre soli luoghi. Se ne può concludere che il termine non era usato nè dalla catechesi che metteva capo a Pietro, nè da quella che metteva capo a Paolo: al contrario, nella catechesi orale di Giovanni il termine doveva essere abituale, giacché egli l'impiega fin dalle prime righe senza spiegazione alcuna, certamente supponendolo già noto ai suoi lettori. Il termine, come nuda voce, era già noto alla filosofia greca dai tempi di Eraclito in poi: ma al medesimo termine corrisposero lungo i secoli concetti differenti, o presso i Sofisti o presso i Socratici (logica) o presso gli Stoici. Gran parte fece al Logos nelle sue speculazioni anche il giudeo alessandrino Filone, ma il suo concetto del Logos è differente da quello dei Greci, e si avvicina piuttosto a quello della “Sapienza” dell'Antico Testamento: a quest'ultimo si avvicina anche il concetto dei termini Memra e Dibbura, col senso di parola (di Dio), che si trovano frequentissimi nei Targumin giudaici ma non nel Talmud. In Samaria, poi, Giovanni fu in relazione col più antico gnostico cristiano a noi noto, Simone Mago (Atti, 8, 9 segg.), il quale nel suo sistema - qualora se ne accetti l'esposizione fatta da Ippolito (Refut., vI, 7 segg.) - aveva incluso, invece del Logos, il Logismos, che faceva parte della terza coppia di eoni: ed emanata dal Supremo Principio.
§ 171. Fino a pochi anni addietro si affermava fiduciosamente che Giovanni avesse desunto il concetto del suo Logos dall'una o l'altra delle teorie suaccennate, ma più comunemente da Filone. In realtà il Logos di Giovanni, ipostasi essenzialmente divina ed increata, è tutt'altro dal Logos di Filone, che appare come un essere fluttuante fra la personalità e l'attributo divino, e fungente quasi da tratto intermedio fra Dio immateriale e il mondo corporeo. Ad ogni modo sarebbe oramai inutile insistere su ciò, poiché la differenza fra i due concetti di Logos è stata riconosciuta recentemente dagli studiosi più radicali: lo stesso Loisy, che nella sua prima edizione del commento al rv vangelo (1903, pagg. 121-122) aveva sostenuto non potersi negare l'influenza parziale delle idee liloniane su Giovanni, nella seconda edizione (1921, pag. 88) ha giudicato improbabile una dipendenza letteraria da Filone ritenendo che il Logos di Giovanni faccia piuttosto seguito alle personificazioni della Sapienza nell'Antico Testamento. E’ ciò che, già da secoli, avevano detto i vecchi Scolastici. Anche della dipendenza del Logos di Giovanni dal Mandeismo, non mette conto di parlare: questa teoria è stata un fuoco di paglia che qualche anno fa divampò per breve tempo, ma di cui oggi restano soltanto fredde ceneri (§ 214). E’ dunque da concludersi che il concetto del Logos di Giovanni è proprio esclusivamente a lui, e non trova vere corrispondenze in concetti anteriori. Quanto alla voce con cui Giovanni espresse questo suo concetto, sembra che egli la impiegasse perché, trovandola adatta al concetto e divulgata già nel mondo greco-romano, volle avvicinarsi almeno per la strada della terminologia a quel mondo, e cosi guadagnarlo al Logos Gesù. Egli quindi diventò greco con i Greci, come egualmente Paolo diventava tutto con tutti, con Giudei e con non Giudei, per guadagnare tutti alla buona novella (I Cor., 9, 19-23). Si narra che Cristoforo Colombo, allorché nelle sue navigazioni era colto da qualche tempesta, usasse collocarsi sulla prora della nave, e là ritto recitasse al cospetto del procelloso mare l'inizio del vangelo di Giovanni: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum... omnia per ipsum facta sunt... Sugli elementi perturbatori del creato risonava il preconio del Logos creatore: era l'esploratore del mondo che commentava a suo modo l'esploratore di Dio.
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