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martedì 1 ottobre 2013

2622 - San Romano il Melode, Confessore

Romano il Melode, nato verso il 490 a Emesa (oggi Homs) in Siria. Teologo, poeta e compositore, appartiene alla grande schiera dei teologi che hanno trasformato la teologia in poesia. Pensiamo al suo compatriota, sant’Efrem di Siria, vissuto duecento anni prima di lui. Ma pensiamo anche a teologi dell’Occidente, come sant’Ambrogio, i cui inni sono ancora oggi parte della nostra liturgia e toccano anche il cuore; o a un teologo, a un pensatore di grande vigore, come san Tommaso, che ci ha donato gli inni della festa del Corpus Domini di domani; pensiamo a san Giovanni della Croce e a tanti altri. La fede è amore e perciò crea poesia e crea musica. La fede è gioia, perciò crea bellezza.Così Romano il Melode è uno di questi, un poeta e compositore teologo. Egli, appresi i primi elementi di cultura greca e siriaca nella sua città natia, si trasferì a Berito (Beirut), perfezionandovi l’istruzione classica e le conoscenze retoriche. Ordinato diacono permanente (515 ca.), fu qui predicatore per tre anni. Poi si trasferì a Costantinopoli verso la fine del regno di Anastasio I (518 ca.), e lì si stabilì nel monastero presso la chiesa della Theotókos, Madre di Dio. Qui ebbe luogo l’episodio-chiave della sua vita: il Sinassario ci informa circa l’apparizione in sogno della Madre di Dio e il dono del carisma poetico. Maria, infatti, gli ingiunse di inghiottire un foglio arrotolato. Risvegliatosi il mattino dopo – era la festa della Natività del Signore – Romano si diede a declamare dall'ambone: «Oggi la Vergine partorisce il Trascendente» (Inno "Sulla Natività" I. Proemio). Divenne così omileta-cantore fino alla morte (dopo il 555).
Romano resta nella storia come uno dei più rappresentativi autori di inni liturgici. L’omelia era allora, per i fedeli, l’occasione praticamente unica d’istruzione catechetica. Romano si pone così come testimone eminente del sentimento religioso della sua epoca, ma anche di un modo vivace e originale di catechesi. Attraverso le sue composizioni possiamo renderci conto della creatività di questa forma di catechesi, della creatività del pensiero teologico, dell’estetica e dell’innografia sacra di quel tempo. Il luogo in cui Romano predicava era un santuario di periferia di Costantinopoli: egli saliva all'ambone posto al centro della chiesa e parlava alla comunità ricorrendo ad una messinscena piuttosto dispendiosa: utilizzava raffigurazioni murali o icone disposte sull'ambone e ricorreva anche al dialogo. Le sue erano omelie metriche cantate, dette "contaci" (kontákia). Il termine kontákion, "piccola verga", pare rinviare al bastoncino attorno al quale si avvolgeva il rotolo di un manoscritto liturgico o di altra specie. I kontákia giunti a noi sotto il nome di Romano sono ottantanove, ma la tradizione gliene attribuisce mille.
In Romano, ogni kontákion è composto di strofe, per lo più da diciotto a ventiquattro, con uguale numero di sillabe, strutturate sul modello della prima strofa (irmo); gli accenti ritmici dei versi di tutte le strofe si modellano su quelli dell'irmo. Ciascuna strofa si conclude con un ritornello (efimnio) per lo più identico per creare l’unità poetica. Inoltre le iniziali delle singole strofe indicano il nome dell’autore (acrostico), preceduto spesso dall’aggettivo "umile". Una preghiera in riferimento ai fatti celebrati o evocati conclude l’inno. Terminata la lettura biblica, Romano cantava il Proemio, per lo più in forma di preghiera o di supplica. Annunciava così il tema dell’omelia e spiegava il ritornello da ripetere in coro alla fine di ciascuna strofa, da lui declamata con cadenza a voce alta.
Un esempio significativo ci è offerto dal kontakion per il Venerdì di Passione: è un dialogo drammatico tra Maria e il Figlio, che si svolge sulla via della croce. Dice Maria: «Dove vai, figlio? Perché così rapido compi il corso della tua vita?/ Mai avrei creduto, o figlio, di vederti in questo stato,/ né mai avrei immaginato che a tal punto di furore sarebbero giunti gli empi/ da metterti le mani addosso contro ogni giustizia». Gesù risponde: «Perché piangi, madre mia? [...]. Non dovrei patire? Non dovrei morire?/ Come dunque potrei salvare Adamo?». Il figlio di Maria consola la madre, ma la richiama al suo ruolo nella storia della salvezza: «Deponi, dunque, madre, deponi il tuo dolore:/ non si addice a te il gemere, poiché fosti chiamata "piena di grazia"» (Maria ai piedi della croce, 1-2; 4-5). Nell'inno, poi, sul sacrificio di Abramo, Sara riserva a sé la decisione sulla vita di Isacco. Abramo dice: «Quando Sara ascolterà, mio Signore, tutte le tue parole,/conosciuto questo tuo volere essa mi dirà:/- Se chi ce l’ha dato se lo riprende, perchè ce l’ha donato?/[...] - Tu, o vegliardo, il figlio mio lascialo a me,/e quando chi ti ha chiamato lo vorrà, dovrà dirlo a me» (Il sacrificio di Abramo, 7).
Romano adotta non il greco bizantino solenne della corte, ma un greco semplice, vicino al linguaggio del popolo. Vorrei qui citare un esempio del suo modo vivace e molto personale di parlare del Signore Gesù: lo chiama "fonte che non brucia e luce contro le tenebre" e dice: «Io ardisco tenerti in mano come una lampada;/ chi porta, infatti, una lucerna fra gli uomini è illuminato senza bruciare./ Illuminami dunque, Tu che sei la Lucerna inestinguibile» (La Presentazione o Festa dell’incontro, 8). La forza di convinzione delle sue predicazioni era fondata sulla grande coerenza tra le sue parole e la sua vita. In una preghiera dice: «Rendi chiara la mia lingua, mio Salvatore, apri la mia bocca / e, dopo averla riempita, trafiggi il mio cuore, perché il mio agire/ sia coerente con le mie parole» (Missione degli Apostoli, 2).
Esaminiamo adesso alcuni dei suoi temi principali. Un tema fondamentale della sua predicazione è l’unità dell’azione di Dio nella storia, l’unità tra creazione e storia della salvezza, l’unità tra Antico e Nuovo Testamento. Un altro tema importante è la pneumatologia, cioè la dottrina sullo Spirito Santo. Nella festa di Pentecoste sottolinea la continuità che vi è tra Cristo asceso al cielo e gli apostoli, cioè la Chiesa, e ne esalta l’azione missionaria nel mondo: «[...] con virtù divina hanno conquistato tutti gli uomini;/ hanno preso la croce di Cristo come una penna,/ hanno usato le parole come reti e con esse hanno pescato il mondo,/ hanno avuto il Verbo come amo acuminato,/ come esca è diventata per loro/ la carne del Sovrano dell’universo» (La Pentecoste 2;18).
Altro tema centrale è naturalmente la cristologia. Egli non entra nel problema dei concetti difficili della teologia, tanto discussi in quel tempo, e che hanno anche tanto lacerato l’unità non solo tra i teologi, ma anche tra i cristiani nella Chiesa. Egli predica una cristologia semplice ma fondamentale, la cristologia dei grandi Concili. Ma soprattutto è vicino alla pietà popolare – del resto, i concetti dei Concili sono nati dalla pietà popolare e dalla conoscenza del cuore cristiano – e così Romano sottolinea che Cristo è vero uomo e vero Dio, ed essendo vero Uomo-Dio è una sola persona, la sintesi tra creazione e Creatore: nelle sue parole umane sentiamo parlare il Verbo di Dio stesso. «Era uomo – dice – il Cristo, ma era anche Dio,/ non però diviso in due: è Uno, figlio di un Padre che è Uno solo» (La Passione 19). Quanto alla mariologia, grato alla Vergine per il dono del carisma poetico, Romano la ricorda alla fine di quasi tutti gli inni e le dedica i suoi kontáki più belli: Natività, Annunciazione, Maternità divina, Nuova Eva.
Gli insegnamenti morali, infine, si rapportano al giudizio finale (Le dieci vergini [II]). Egli ci conduce verso questo momento della verità della nostra vita, del confronto col Giudice giusto, e perciò esorta alla conversione nella penitenza e nel digiuno. In positivo, il cristiano deve praticare la carità, l’elemosina. Egli accentua il primato della carità sulla continenza in due inni, le Nozze di Cana e le Dieci vergini. La carità è la più grande delle virtù: «[...] dieci vergini possedevano la virtù dell’intatta verginità,/ ma per cinque di loro il duro esercizio fu senza frutto./ Le altre brillarono per le lampade dell’amore per l’umanità,/ per questo lo sposo le invitò» (Le dieci Vergini, 1).
Umanità palpitante, ardore di fede, profonda umiltà pervadono i canti di Romano il Melode. Questo grande poeta e compositore ci ricorda tutto il tesoro della cultura cristiana, nata dalla fede, nata dal cuore che si è incontrato con Cristo, con il Figlio di Dio. Da questo contatto del cuore con la Verità che è Amore nasce la cultura, è nata tutta la grande cultura cristiana. E se la fede rimane viva, anche quest’eredità culturale non diventa una cosa morta, ma rimane viva e presente. Le icone parlano anche oggi al cuore dei credenti, non sono cose del passato. Le cattedrali non sono monumenti medievali, ma case di vita, dove ci sentiamo "a casa": incontriamo Dio e ci incontriamo gli uni con gli altri. Neanche la grande musica – il gregoriano o Bach o Mozart – è cosa del passato, ma vive della vitalità della liturgia e della nostra fede. Se la fede è viva, la cultura cristiana non diventa "passato", ma rimane viva e presente. E se la fede è viva, anche oggi possiamo rispondere all'imperativo che si ripete sempre di nuovo nei Salmi: "Cantate al Signore un canto nuovo". Creatività, innovazione, canto nuovo, cultura nuova e presenza di tutta l’eredità culturale nella vitalità della fede non si escludono, ma sono un’unica realtà; sono presenza della bellezza di Dio e della gioia di essere figli suoi.
Papa Benedetto XVI (Udienza Generale 21.05.2008)
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