Nazareth
§ 259. Rientrato che fu in Palestina, Giuseppe apprese che Archelao figlio di Erode era al governo della Giudea, e perciò di Gerusalemme e di Beth-lehem: ciò l'indusse a non far più ritorno alla precedente dimora, per la pessima fama che aveva il nuovo monarca (§ 14), rinunziando così al progetto - se realmente era stato fatto (§ 241) - di stabilirsi a Beth-lehem, luogo originario del casato di David. Nella sua perplessità egli ricevette un'altra rivelazione onirica, in conseguenza della quale ritornò a Nazareth, ove non governava Archelao ma Antipa (§§ 13, 15). Matteo chiude la narrazione dicendo che l'insediamento a Nazareth avvenne affinché s'adempisse il detto per mezzo dei profeti “Nazoreo sarà chiamato” (2, 23). Queste precise parole non si ritrovano in nessuno scritto profetico della Bibbia odierna: supporre che ne riportino qualche tratto che sia andato perduto più tardi, è un'ipotesi arbitraria, come sarebbe contro ogni verosimiglianza supporre che provengano da qualche sconosciuto Apocrifo. Molto più fondata è l'opinione di S. Girolamo, benché soltanto negativa, il quale fa notare che Matteo citando i “profeti” al plurale, mostra d'aver preso dalle Scritture non le parole ma il senso; Matteo, cioè, non intenderebbe allegare un determinato passo bensì un concetto, né si riferisce a precise parole bensì ad un pensiero. Troviamo di fatti che simili citazioni concettuali erano già state impiegate nell'Antico Testamento, come saranno ancora usate dai rabbini successivi. Ma qual è il senso o concetto a cui si riferisce Matteo? La questione non ha ancora ricevuto una risposta sicura, e si riconnette in parte con la questione filologica della doppia forma Nazoreo e Nazareno. Ma, comunque si risolva la questione filologica, nel nostro caso si poté alludere a un determinato concetto anche soltanto mediante una somiglianza o assonanza verbale, come egualmente si era già fatto nell'Antico Testamento soprattutto per nomi di persona o di luogo. Ammessa questa elasticità di relazione, si presenta come possibile più d'una allusione. In primo luogo quella a Isaia, 11, 1, ove del futuro Messia si dice: Uscirà un virgulto dal tronco di Isai (Jesse, padre di David) e un germoglio dalle sue radici fiorirà; poiché germoglio è in ebraico neser, Matteo vi può aver visto un richiamo verbale al nome di Nazareth (§ 228), tanto più che anche la tradizione rabbinica riferiva al futuro Messia il passo di Isaia. Può darsi anche, almeno in maniera concomitante e secondaria, si sia pensato allo stato del nazir, cioè di colui che era “nazireo” per consacrazione della sua persona a Dio; è vero che in ebraico nazir è scritto con una lettera differente (N Z R) da quelle del nome di Nazareth (N S R), ma per questi riavvicinamenti onomastico-simbolici bastava una certa corrispondenza empirica o assonanza, come era bastata in casi simili dell'Antico Testamento (Genesi, 11, 9; 17, 5; Esodo, 2, 10): e forse più distintamente si è visto un simbolo prefigurativo del Messia in Sansone, salvatore del suo popolo e chiamato « nazir » di Dio fin dalla sua fanciullezza, come si legge nel libro dei Giudici, 13, 5, che appartiene appunto ai « profeti anteriori » della Bibbia ebraica. Quale di queste possibilità, e di molte altre proposte dagli studiosi antichi e moderni, corrisponda alla realtà non è dato di sapere.
§ 260. Quando Giuseppe venne di nuovo a stabilirsi a Nazareth, cioè nell'anno 750 di Roma inoltrato, il bambino Gesù aveva circa due anni di età (§ 173). Da questo tempo fino all'inizio della sua vita pubblica (§ 175) corrono più di 30 anni, che costituiscono la sua vita nascosta. Di cosi' lungo periodo non ci sono comunicate notizie, salvo due, di cui una riguarda un fatto permanente e l'altra un episodio solitario. Ambedue le notizie, com'era da aspettarsi, sono comunicate da Luca, lo storico che attinge le sue informazioni dai ricordi personali della madre di Gesù. In primo luogo l'evangelista medico, dimostrando quasi un occhio clinico spirituale, afferma una prima volta che, giunti i tre a Nazareth, il bambino cresceva e s'afforzava pieno di sapienza, e grazia di Dio era su lui (Luca, 2, 40); poco dopo, come per far notare che questo era un fatto permanente, ripete una seconda volta che, all'età di 12 anni, Gesù progrediva nella sapienza e statura e grazia presso Dio ed uomini (2, 52). C'era dunque in Gesù uno sviluppo ed un accrescimento, e non soltanto esteriore davanti agli uomini, ma anche interiore davanti a Dio. Come egli cresceva fisicamente e si sviluppavano le sue facoltà sensitive e intellettive, così crescevano le sue cognizioni sperimentali, ed egli man mano diventava fanciullo, ragazzo, giovane, uomo maturo, fisicamente ed intellettualmente. Gli antichi Doceti negarono la realtà di questo sviluppo e lo considerarono solo apparente e fittizio, perché sembrava loro incompatibile con la divinità del Cristo; ma appunto Cirillo d'Alessandria, l'implacabile avversario di Nestorio e strenuo assertore dell'unità di Cristo (Quod unus sit Ghristus, in Migne, Patr. Gr., 75' 1332), sostiene che in Gesù le leggi della natura umana conservarono tutto il loro valore compresa quella dello sviluppo progressivo fisico ed intellettuale.
§ 261. L'altra notizia comunicata da Luca è l'episodio dello smarrimento e ritrovamento di Gesù a Gerusalemme. I genitori di Gesù - così li chiama semplicemente Luca (2, 41), - si recavano ogni anno a Gerusalemme in occasione della Pasqua, come faceva ogni buon Israelita per questa principale tra le “feste di pellegrinaggio” (§ 74). Secondo le prescrizioni legali Maria, come donna, non era obbligata a questo viaggio, e neppure Gesù prima del suoi 30 anni; tuttavia molte donne accompagnavano spontaneamente i loro mariti, e quanto ai figli i padri più osservanti li conducevano seco anche prima dei 13 anni: i rabbini della scuola di Shamrnai esigevano che si portasse al Tempio il bambino che potesse reggersi a cavalcioni sulla spalla del padre, mentre quelli della scuola di Hillel restringevano l'obbligo al bambino che potesse salire i gradini del Tempio sorretto dalla mano del padre. Ad ogni modo, a cavalcioni o a piedi, molti bambini e moltissimi ragazzi facevano il pellegrinaggio della Pasqua, accrescendo sempre più la fiumana di gente che vi accorreva (§ 74). Certamente Gesù vi fu condotto anche nella sua fanciullezza, ma quando vi andò che aveva 12 anni avvenne l'episodio narrato da Luca. Il pellegrinaggio, se moveva da luoghi piuttosto lontani come Nazareth, si compieva a gruppi di parenti e amici, formando piccole carovane che viaggiavano e pernottavano insieme nelle soste lungo il cammino. Da Nazareth a Gerusalemme le soste di pernottamento dovevano essere tre (o quattro), perché la strada s'aggirava sui 120 chilometri (oggi 140); a Gerusalemme si giungeva uno o due giorni prima del 14 Nisan (§ 74) e si rimaneva o fino a tutto il 15 o anche per l'intera ottava, cioè fino a tutto il 21 con cui terminavano le solennità pasquali. Quell'anno, quando si fu alla partenza di ritorno, il ragazzo Gesù rimase a Gerusalemme senza che i suoi genitori se ne accorgessero. Non vedendolo presso di sé, i due non avevano motivo di sospettare che fosse rimasto in città. La carovana in Oriente ha una disciplina singolare, non militaresca, non rigida, per cui ognuno s'attiene genericamente ai tempi di partenza e d'arrivo, e per il resto rimane libero di sé; lungo il cammino la comitiva si divide e suddivide in tanti gruppi che procedono a una certa distanza fra loro, che si accrescono od assottigliano a beneplacito dei viandanti, e solo alla sera giunti alla sosta di pernottamento tutti si ritrovano insieme. Un qualsiasi ragazzo di 12 anni, ch'era quasi sui iuris presso i Giudei, partecipava a siffatta elasticità di disciplina carovaniera al pari e anche più d'un uomo maturo, perché mentre sapeva benissimo come regolarsi aveva anche in suo favore la vivacità dell'età sua. Cosicché, lungo la prima giornata di cammino, i genitori credettero che Gesù si fosse unito a qualche gruppo della carovana diverso dal loro; ma quando si giunse alla prima sosta di pernottamento, cercatolo invano nei vari gruppi riuniti insieme, s'avvidero che mancava.
§ 262. Affannati, i due fecero ritorno a Gerusalemme, e la giornata seguente allo smarrimento fu da essi consumata parte nel viaggio e parte nelle prime ricerche in città. Ma le ricerche rimasero vane, e perciò furono proseguite nel terzo giorno; allora lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori e ascoltandoli e interrogandoli; stupefatti erano tutti che l’ascoltavano, per l'intelligenza e le risposte di lui. E vedendolo (i genitori) furono colpiti, e gli disse sua madre: “Figlio, perché facesti a noi così? Ecco, tuo padre ed io addolorati ti cercavamo!”. E disse loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che nella (casa) del Padre mio e' necessario ch'io sia?”. Ed essi non capirono la parola che pronunziò loro (Luca, 2, 46-50). Alla fine di quello stesso secolo Flavio Giuseppe, scrivendo la sua biografia (Vita, 9), racconterà che quando egli aveva 14 anni, cioè verso il 52 dopo Cr., era già famoso in Gerusalemme per la sua perizia nella Legge, e che i sommi sacerdoti e altre insigni persone della città si radunavano abitualmente in casa sua per consuitarlo su questioni difficili. Chi narra questo fatto risulta un millantatore e un blagueur da molti luoghi dei suoi scritti, e quindi con pieno diritto si potrà negar fede a ciò che egli qui racconta: tuttavia un piccolo nocciolo di verità ci può essere, in quanto cioè, essendo egli d'ingegno svegliato, avrà per caso sostenuto una volta tanto una specie di disputa con alcuni Dottori della Legge riunitisi per altre ragioni a casa sua. I rabbini infatti accettavano nelle loro scuole fanciulletti già di sei anni: “e da sei anni in su noi accettiamo (il bambino, e per mezzo della Legge) lo ingrassiamo come' un bove” (Baba bathra, 21 a); e naturalmente con i bambini o ragazzi che apparivano più perspicaci e intelligenti essi erano più premurosi, non disdegnando d'entrare in discussioni con loro come da pari a pari. Ma la scena di Luca è tutta diversa da quella di Flavio Giuseppe. Gesù è nel Tempio, in uno dei suoi atrii dove abitualmente s'adunavano i Dottori a discutere (§ 48); egli non detta sentenze come il futuro liberto di Vespasiano, bensì si uniforma al metodo accademico dei rabbini che consisteva in ascoltare, rivolgere domande di schiarimento e procedere per ordine, in modo da far progredire il risolvimento della questione mediante il contributo di tutti i partecipanti. Ma il contributo di quello sconosciuto ragazzo era così straordinario, per aggiustatezza di domande e perspicacia d'osservazioni, che primi ne stupivano i sottili giuristi di Gerusalemme. Ne stupirono anche Maria e Giuseppe, che certamente assistettero a parte di una disputa aspettandone la fine: tuttavia lo stupore di questi due fu diverso da quello dei Dottori, essendo la meraviglia di chi sa molte cose ma non ne ha ancora previste tutte le conseguenze e specialmente non ha ancora riscontrato tali conseguenze tradotte in atto. La madre, nella sua addolorata esclamazione, parla giustamente da madre. Il figlio, nella sua risposta, le risponde più da figlio di un Padre celeste che di una madre terrestre: se egli ha abbandonato momentaneamente la sua famiglia umana, è stato per l'unica ragione capace di indurlo a tale abbandono, quella di essere nella spirituale casa del Padre celeste. La risposta di Gesù riassume tutta la sua vita futura. Luca, che scrive post eventum, interpreta bene in questo senso la risposta di Gesù, e non la riferisce già al materiale Tempio di Gerusalemme come sonava la parola. Ma il sottile storico aggiunge subito che i genitori, a cui Gesù rispondeva, non capirono la parola che pronunziò loro. Non la capirono, benché già sapessero tante cose di Gesù, per la stessa ragione per cui stupirono al ritrovarlo fra i Dottori: non prevedevano cioè tutte le conseguenze delle cose che già sapevano. E chi poté mai confessare questa antica incomprensione della risposta di Gesù se non Maria stessa, quando ne parlava post eventum allorché suo figlio era morto e risorto? Perciò Luca anche qui ripete la sua preziosa allusione: La madre di lui serbava tutte le parole nel suo cuore (2, 51). Che è quanto indicare, con riguardosa discrezione, la fonte delle notizie (§§ 142, 248).
§ 263. Per tutti i 30 anni passati da Gesù a Nazareth non sappiamo altro: tornato lassù dopo l'episodio del Tempio, egli era sottoposto ad essi (2, 15), a Giuseppe e a Maria. Penetrare nell'arcano di quei 30 anni sarebbe certamente vivo desiderio di ogni mente eletta, ma chi s'introdurrà in quel santuario senza un'autorevole guida? Le nostre guide ufficiali si sono fermate al di fuori, limitandosi a dirci che là dentro Gesù era sottoposto ad essi. Quel re messianico ch'era nato in una reggia le cui caratteristiche erano state la purità e la povertà, seguitava le tradizioni di quella sua prima corte. Adesso la stalla era stata sostituita parte da una bottega da carpentiere e parte da una casettaccia mezzo scavata nella collina; la purità si era conservata nelle stesse forme e persone di prima; la povertà aveva preso l'aspetto di necessità di lavorare, e a suo fianco e a sua conferma era apparsa la soggezione volontaria. In quei 30 anni, in giro per il mondo, avvenivano cose grosse. A Roma si riapriva il tempio di Giano, essendo finito il periodo del toto orbe in pace composz'to (§ 225); in Giudea Archelao partiva per l'esilio, e i procuratori romani prendevano il suo posto; Augusto in età di 76 anni cessava di essere il padrone di questo mondo, e subito dopo per decreto del Senato diventava un dio dell'altro mondo; Germanico dopo le vittorie sui Barbari del Settentrione moriva in Oriente; a Roma spadroneggiava Seiano, mentre da Capri vigilava su lui Tiberio pronto a spacciarlo. Nel frattempo, a Nazareth, Gesù era come se non esistesse. Simile esteriormente in tutto ai suoi coetanei, prima bambini, poi ragazzi, infine giovani, egli dapprima saltellò sulle ginocchia della madre, poi le prestò i suoi piccoli servigi, quindi assistette Giuseppe nella bottega, più tardi cominciò a leggere e a scrivere, recitò lo Shema (§ 66) e le altre preghiere abituali, frequentò la sinagoga; da giovane maturo si sarà interessato di campi e vigne, di lavori che Giuseppe man mano eseguiva dentro Nazareth e nei suoi ameni dintorni, di questioni sulla Legge giudaica, di Farisei e di Sadducei, di avvenimenti politici della Palestina e dell'estero. All'apparenza, i suoi giorni passavano semplicemente così. Il suo idioma usuale era l'aramaico, pronunziato con quell'accento particolare ai Galilei che li faceva riconoscere appena cominciavano a parlare. Ma la Galilea, periferica qual era ed in continue relazioni con circostanti popolazioni ellenistiche, esigeva quasi necessariamente un certo impiego del greco; è probabile che Gesù si servisse talvolta anche del greco, e anche più probabile che facesse altrettanto dell'ebraico.
§ 264. Gesù aveva anche dei parenti come sua madre aveva una “sorella” (Giovanni, 19, 25), così egli aveva “fratelli” e “sorelle” più volte ricordati dagli evangelisti (e anche da Paolo, I Cor., 9, 5). Di quattro di questi “fratelli” ci è trasmesso anche il nome, e si chiamavano Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda (Matteo, 13, 55; Marco, 6, 3); le sue “sorelle” non sono nominate, ma dovevano esser parecchie giacché si parla di “tutte... le sorelle di lui” (Matteo, 13, 56). La designazione di questo ampio stuolo parentale corrisponde bene ai costumi d'Oriente, ove i legami di sangue sono perseguiti anche nelle loro lontane e tenui ramificazioni, cosicché i collaterali più vicini sono designati genericamente come “fratelli” e “sorelle”, pur essendo soltanto cugini di vario grado; già nella Bibbia ebraica i nomi “fratello”, “sorella”, designano spesso parenti di grado molto più lontano che il fratello o la sorella carnali, tanto più che nell'ebraico antico non si ritrova un preciso vocabolo per indicare esclusivamente il cugino. Cugini, dunque, erano i “fratelli” e le “sorelle” di Gesù. Ora, questa numerosa parentela non era tutta favorevole a lui. Nel pieno della sua operosità pubblica ci viene comunicato che neppure i fratelli di lui credevano in lui (Giovanni, 7, 5); né si può credere che questa avversione, o alienazione che fosse, si formasse per la prima volta quando Gesù iniziò la sua operosità pubblica. Doveva essere piuttosto la manifestazione aperta di un vecchio sentimento, che nel cuore di cotesti consanguinei covava già al tempo della vita nascosta di Nazareth. Di questo rancore domestico è comunicata da Gesù stesso una ragione, ma è generica: Non è profeta inonorato se non nella patria di lui e nei parenti di lui e nella casa di lui (Marco, 6, 4). Ad ogni modo, a fianco a cotesti astiosi parenti ve ne furono di fedelissimi che gli si mantennero uniti usque ad mortem et ultra, e che certamente lo avevano circondato della loro benevolenza fin da quand'era oscuro ragazzo e giovane a Nazareth. Primi fra tutti Maria e Giuseppe; quindi Giacomo, il fratello del Signore (Galati, 1, 19), cioè Giacomo il Minore, e poi anche altri (Atti, 1, 14), di cui forse taluni ripulitisi con l'andar del tempo dalla loro antica ruggine. Dope i fatti dell'infanzia di Gesù non si trova più alcuna menzione di Giuseppe, né la figura di lui s'intravede minimamente durante la vita pubblica. Tanto induce a credere che il padre legale di Gesù morisse durante i 30 anni di vita nascosta del figlio; se egli fosse stato superstite a quei 30 anni, come Maria, qualche accenno se ne sarebbe facilmente conservato nell'antica catechesi e quindi anche nei vangeli che da essa dipendono. Di lui rimase ufficialmente soltanto l'appellativo paterno, ch'egli lasciò insieme col mestiere al suo figlio legale: Non e' costui il figlio del carpentiere? (Matteo, 13, 55); Non e' costui il carpentiere, il figlio di Maria...? (Marco, 6, 3).
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