§ 143. Luca non scrive soltanto per Teofilo, ma anche per i cristiani che si trovano più o meno nelle condizioni di spirito del destinatario. Sono i cristiani delle chiese fondate da Paolo, composte in prevalenza da fedeli provenienti dal paganesimo; del resto già Origene aveva notato che il vangelo di Luca era per quelli (provenienti) dai gentili. Aggiunge infatti spiegazioni che sarebbero state superflue per lettori giudei, ad esempio che la festa giudaica degli Azimi si chiamava Pasqua (Luca, 22, 1); e invece tralascia cose che sarebbero state fraintese da chi proveniva dal gentilesimo, come il precetto dato da Gesù agli Apostoli di non andare per la via dei gentili (Matteo, 10, 5: precetto non riportato neppure da Marco, per la stessa ragione di Luca). Altre volte attenua espressioni che sonavano troppo dure per gentili, come quando invece di dire non fanno ciò anche i gentili? (Matteo, 5, 47) dice fanno ciò anche i peccatori (Luca, 6, 33); per la stessa preoccupazione di delicatezza aggiunge, invece, fatti particolari che risultavano a onore dei gentili, come la buona accoglienza fatta da Giovanni il Battista ai soldati (3, 14), la generosità del centurione verso di Giudei (7, 4-5), e perfino la carità e la gratitudine che si potevano ritrovare presso gli aborriti Samaritani (10, 33-35; 17, 15-18). Soprattutto poi, lo scritto di Luca vuol essere la “buona novella” della bontà e della misericordia. Il discepolo di Paolo, che si rivolge ai cristiani di Paolo, dipinge Gesù non solo come salvatore di tutti gli uomini indistintamente, ma come amico in modo particolare dei piu' traviati, dei più umili e diseredati sulla terra. Se questa presentazione di Gesù quale supremo medico spirituale indusse Dante a designare Luca quale scriba mansuetudinis Christi (§ 138), indusse pure il Renan a definire questo vangelo il piu' bel libro che esista: nella quale definizione l'iperbole abituale nello scrittore francese ha molto minor parte che in altri giudizi di lui. La parabola del figliuol prodigo, miracolo letterario di potenza psicologica, è riferita dal solo Luca. Soltanto Luca fa che il pastore si metta proprio sulle spalle la ritrovata pecora perduta e giunto a casa ne faccia gran festa con gli amici (15, 5-6; mancante in Matteo, 18, 13); come pure soltanto Luca parla della donna che ritrova la dramma perduta, e che se ne rallegra con le amiche come si fa gaudio al cospetto degli angeli d'iddio per un solo peccatore che si penta (Luca, 15, 8-10). Non altri che Luca riporta le parole di Gesù morente Padre, perdona loro, perché non sanno che cosa fanno!, e subito appresso quelle altre con cui il morente promette il paradiso al ladrone pentito che gli agonizza a fianco (23, 34.43).
§ 144. Anche da un altro aspetto appare l'indole vera dello scritto di Luca. Si ripensi qual era, nella sua realtà, la società in mezzo a cui vivevano i lettori di questo vangelo. A Roma stessa insieme con Luca abitava Seneca, il quale tranquillamente affermava che la donna impudens animai est et... ferum, cupiditatum incontinens (De constantia sapientis, xiv, 1); un altro contemporaneo abitante dell'Urbe era Petronio l'Arbitro autore di quel Satiricon che, se è il libro piu' cinicamente osceno trasmessoci dalla romanità classica, è anche fedele specchio del fasto orientalesco riserbato in quella società ad alcuni pochi, fra moltitudini sterminate di proletari e di schiavi. Eccezioni non saranno mancate: ma non potevano esser molte, e ad ogni modo erano più teoretiche che pratiche. Appunto il “Seneca morale”, mentre ragionava egregiamente di virtù civili ed umane, definiva la donna nella maniera testé vista; e mentre dettava la sentenza di sapore cristiano parem autem deo pecunia non faciet: deus nihil habet... nudus est (Epist., 31, 10), confessava davanti a Nerone di possedere immensam pecunium e di fare l'usuraio, dimostrando di non avere alcuna voglia di restar nudo come il suo Dio. Era insomma la società esattamente riassunta da quel Claudio Secondo, che aveva scritto sulla propria tomba: Balnea vina venar corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt bainea vina venus. Era la società in cui imperava, quasi assoluto, il binomio “lussuria e lusso”. In antitesi perfetta all'indole di quella società è l'indole dello scritto di Luca, che è il vangelo di esaltazione per la donna, di encomio per la povertà, di laude per la giocondità della vita semplice ed umile: uno scritto che si può riassumere nel binomio “purità e povertà”, non senza aggiungervi quello spirito di perfetta letizia che si sarebbe tentati di definire francescano, se già dapprima non fosse stato tipicamente lucano. Le donne del vangelo di Luca, mentre hanno una probabile parte come informatrici, ne hanno certamente una molto onorevole come attrici. Oltre a figure di primo piano, quali Maria madre di Gesù ed Elisabetta madre di Giovanni il Battista, il solo Luca presenta la profetessa Anna (2, 36-38), la vedova di Naim (7, i 1 segg.), la peccatrice anonima (7, 37 segg.), la donna ricurva (13, 10 segg.), l'altra donna che proclama beata la madre di Gesù (2, 27-28), la massaia Marta (10, 38 segg.), le donne della via dolorosa (23, 27 segg.): i quali ritratti femminili saranno di molto accresciuti nei successivi Atti, costituendo nell'insieme una pinacoteca che mette la donna in una luce affatto diversa da quella della contemporanea società pagana.
§ 145. Insieme con la purità, il vangelo di Luca esalta la povertà. Mentre il Discorso della montagua in Matteo ripete nove volte la felicitazione Beati...!, Luca la ripete solo quattro volte, ma in compenso aggiunge quattro volte la maledizione Guai...!, che è indirizzata tutte e quattro le volte ai ricchi e gaudenti (6, 20-26); cosi pure, mentre la prima felicitazione è rivolta in Matteo ai poveri in ispirito, da Luca è. rivolta ai poveri semplicemente. In armonia con ciò il solo Luca ricorda espressasnente la bassezza della madre di Gesù (1, 48) e la povertà della sua offerta al Tempio (2, 24), la squallida nascita di Gesù a Beth-lehem e la miseria dei garzoni di greggi che furono i suoi primi adoratori; dal solo Luca è riferito che Gesù, parlando nella sinagoga di Nazareth, applicò a se stesso le parole di Isaia: “Lo spirito del Signore e' su me: perciò mi unse per evangelizzare ai poveri” (4, 18); e se Luca riporta insieme con Matteo le parole di Gesù: Le volpi hanno le tane... ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo (9, 58), egli solo ci dice che alcune facoltose donne gli apprestavano il necessario dalle proprie sostanze (8, 3). Anzi nello scritto di Luca afflora cosi frequentemente l'esaltazione della povertà, che qualche studioso moderno ha creduto riscontrarvi l'influenza della antica setta degli Ebioniti (“poveri”), costituita da cristiani provenienti dal giudaismo; ma appunto tale provenienza basterebbe ad escludere quell'influenza da uno scritto come questo, del tutto alieno dallo spirito giudaico e animato invece da spirito universalistico, mentre l'avversione alle ricchezze è adeguatamente spiegata dalla reazione all'indole della contemporanea società pagana. Conseguenza della predilezione per la purità e per la povertà sembra essere quello spirito di giocondità serena, quasi poetica, che aleggia su questo vangelo. Già S. Paolo aveva raccomandato ai suoi fedeli: Gioite nel Signore sempre; nuovamente dico: Gioite! (Filipp., 4, 4), tornando anche altrove con parole identiche o equivalenti sulla stessa raccomandazione: Gioite sempre! (I Tessal., 5, 16; cfr. Romani, 12, 12; ecc.). La ragione di questa gioia era che il regno di Dio... e giustizia e pace e gaudio nello Spirito santo (Rom., 14, 17), e che il frutto dello Spirito e' amore, gaudio, pace, ecc. (Galati, 5, 22). Anche in ciò il discepolo va appresso al maestro. Il vangelo di Luca, nei due primi capitoli, contiene singolari espressioni di questo gaudio spirituale, cioè quattro composizioni metriche (Magnificat; Benedictus; Gloria in altissimis; Nunc dimittis) non reperibili negli altri vangeli; infine tutto lo scritto termina narrando come gli Apostoli, dopo aver assistito all'ascensione di Gesù, tornarono a Gerusalemme con gaudio grande, e stavano del continuo nel tempio benedicendo iddio (24, 52-53). E cosi' lo scriba mansuetudinis Christi diventa anche il giullare di Dio nella perfetta letizia.
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