XVI Matteo
§ 114. Il primo vangelo è attribuito all'apostolo Matteo, chiamato anche Levi e già pubblicano (§ 306), da una costante tradizione che risale al principio del secolo II. Il già allegato Papia di Jerapoli, che verso l'anno 120 scrisse cinque libri di Spiegazione dei detti del Signore, affermava in essi che: Matteo in dialetto ebraico coordinò i detti ciascuno poi li interpretò com'era capace (in Eusebio, Hist. eccì., III, 39, 16). Altre testimonianze successive - quali quelle di Ireneo, di Tertulliano (Adv. Marcion., IV, 2), di Clemente Alessandrino (Stro mata, 1, 21), ecc. - confermano più o meno esplicitamente la notizia di Papia. E’ anche certo che tutta l'antichità cristiana, in una gran quantità di attestazioni che sarebbe inutile elencare, ha attribuito a Matteo precisamente il primo dei nostri vangeli canonici e non un altro scritto. Che cosa esattamente afferma Papia dello scritto di Matteo? Egli dice che in esso Matteo coordinò i detti di Gesù: ossia che, non solo raccolse insieme i detti in questione. Gli antichi, infatti, badavano molto in un'opera letteraria all'”ordinamento”: secondo essi uno scrittore doveva in primo luogo provvedere al ritrovamento di un soggetto, quindi sottoporre il soggetto all'«ordinamento»; questo ordinamento, poi, non era sempre quello cronologico, bensì presso gli stessi storici era sovente l'ordinamento logico, fondato o sull'analogia delle varie trattazioni, o sulla congiunzione di causa ed effetto, o sull'unità di luogo e di persone, e simili. E che Papia abbia qui di mira questo ordinamento letterario, risulta da quanto egli ha detto immediatamente prima circa il vangelo di Marco (citeremo l'intero passo al § 128), ove afferma che Marco scrisse esattamente, ma non già con ordinamento; al contrario, nello scritto di Matteo egli ritrova con soddisfazione questo “ordinamento”.
§ 115. Ora, quali sono i detti contenuti nello scritto di Matteo? Etimologicamente il termine greco significa detti (sentenze, oracoli); ma particolarmente, presso scrittori giudei e cristiani, significava anche passi in genere della sacra Scrittura, che contenessero indifferentemente sia sentenze sia fatti. Papia stesso usa altrove il termine in questo secondo senso più ampio: nel già accennato passo ove parla del vangelo di Marco, dice che questo contiene le cose o pronunzsate o operate da Gesù; eppure, immediatamente appresso, egli designa questo complesso narrativo come detti di Gesù. Inoltre la stessa opera scritta da Papia era bensì intitolata Spiegazione dei detti del Signore, ma dagli accenni e citazioni che ne rimangono risulta che essa trattava, oltreché delle sentenze, anche dei fatti di Gesù e dell'età apostolica. Per conseguenza, non solo l'antichità cristiana, ma anche tutti gli studiosi indistintamente fino al secolo XIX inoltrato, ritennero che questi detti attribuiti da Papia a Matteo designino il primo dei nostri vangeli canonici: tanto più che di un'opera assegnata a Matteo o ad altri Apostoli, conteneva solo sentenze di Gesù, non esiste né attestazione né traccia alcuna trasmessa dall'antichità. Se poi passiamo a confrontare questi dati, strettamente positivi, con il contenuto del nostro primo vangelo, troviamo una adeguata corrispondenza alle due caratteristiche rilevate da Papia: quella dell'appellativo di detti, e quella dell'”ordinamento” letterario.
§ 116. E in primo luogo, fra i vangeli sinottici, Matteo è quello che concede il più ampio spazio alle parole di Gesù, le quali occupano circa tre quinti dell'intero scritto: perciò con particolare ragione esso poteva esser designato come una raccolta di detti, pur conservandosi a questa parola il significato usuale meno rigoroso che includeva anche la narrazione di fatti. Inoltre, la raccolta dei discorsi di Gesù ivi riferiti è stata ripartita in cinque gruppi, secondo quella norma di “ordinamento” letterario che stava a cuore a Papia. Il primo gruppo contiene ciò che si potrebbe definire lo statuto del regno fondato da Gesù, cioè il Discorso della montagna (Matteo, capp. 5-7); il secondo contiene le istruzioni date agli Apostoli per diffondere il regno (cap. 10); il terzo, le parabole del regno (cap. 13); il quarto, i requisiti morali per appartenere al regno (cap. 18); il quinto, il perfezionamento del regno e la sua consumazione nei fini estremi (capp. 23-25). Notevole è che ognuno di questi gruppi è preceduto da poche parole d'introduzione, ed è poi seguito da una conclusione, la quale tutte le volte è, con minime mutazioni, questa: E avvenne che, quando Gesu' ebbe terminato o questi discorsi o queste parabole, ecc. (7, 28; 11, 1; 13, 53; 19, 1; 26, 1). Notevole è anche che siffatto “ordinamento” in cinque gruppi, certamente non fortuito, corrisponde numericamente ai cinque libri in cui Papia aveva diviso la sua opera di Spiegazione dei detti del Signore; il che potrebbe far sospettare, benché la cosa non sia punto certa, che Papia avesse seguito nella sua opera l'ordinamento da lui segnalato nello scritto di Matteo, se in essa egli si era occupato soprattutto dei discorsi di Gesù.
§ 117. L'antico pubblicano Matteo, quando mise mano a questa sua opera, era certamente uomo abituato da gran tempo a scrivere, perché senza la quotidiana scrittura non avrebbe potuto nel passato tenere in bell'ordine nel suo tavolo da gabelliere le note dei pagamenti; al contrario gli altri Apostoli, sebbene non fossero privi di lettere, dovevano avere in genere più familiarità con remi e reti da pescatori che non con pergamene e calamai da scrittori (salvo forse i due benestanti figli di Zebedeo), e ciò specialmente subito dopo la morte di Gesù quando iniziarono da soli la loro missione. Testimoni oculari delle azioni di Gesù erano stati tutti egualmente, ma l'abilità scritturale di Matteo era un vantaggio tecnico su altri Apostoli, e questo dovette far sì che fosse assegnato di preferenza a lui l'incarico di mettere in iscritto la catechesi orale degli stessi Apostoli. Quando Matteo si mise all'opera è possibile, sebbene non dimostrato, che già circolasse qualche scritto contenente detti o fatti di Gesù; ma anche se ciò potesse dimostrarsi, si tratterebbe certamente di saggi ancora scarsissimi sia per numero sia per contenuto, composti inoltre per iniziativa privata e privi d'ogni carattere ufficiale. Al contrario, l'incarico dato a Matteo rispondeva all'opportunità che la catechesi orale degli Apostoli fosse ampiamente e ufficialmente riecheggiata in un documento scritto, ricevendone quel sussidio pratico che era richiesto, come vedemmo (§ 106), dalla crescente diffusione della buona novella. Il tipo di catechesi da mettersi in iscritto non poté essere se non quello già collaudato dalla pratica della Chiesa, e le cui linee maestre erano state tracciate da chi aveva la sovreminenza sui banditori ufficiali della buona novella: fu perciò il tipo di catechesi che metteva capo a Pietro (§ 113), senza però escludere il sussidio di altri elementi provenienti dal collegio apostolico che non entravano ordinariamente nel quadro di quella predominante catechesi. In conclusione lo scritto riassunse il pensiero dell'intero collegio apostolico, pur attenendosi alle linee principali della catechesi di Pietro.
§ 118. Un documento quale quello di Matteo, composto da un testimone dei fatti, garantito e sussidiato da altri testimoni, inquadrato entro le linee maestre di un insegnamento ufficiale, esteso su un'ampiezza che non fu mai più raggiunta da scritti dello stesso genere, era destinato immancabilmente ad acquistare un valore singolare. Troviamo infatti che il vangelo di Matteo, come ci viene presentato dalla concorde antichità quale primo in ordine di tempo, cosi è primo quantitativamente per impiego fattone fin dai primi tempi: basti ricordare che, da parte cattolica, Giustino martire a mezzo il secolo II impiega il nostro Matteo non meno di centosettanta volte, e che prima di lui gli antichissimi eretici Ebioniti impiegavano il solo vangelo di Matteo, a detta di Ireneo, ma probabilmente alterato.
§ 119. Tuttavia, da principio, all'impiego e all'ampia diffusione dello scritto di Matteo si opponeva il grave ostacolo della lingua in cui era stato composto. La notizia già comunicataci da Papia, che Matteo scrisse in dialetto ebraico - è in realtà confermata da altri antichi - quali Ireneo, Origene, Eusebio, Girolamo i quali egualmente parlano di lingua ebraica o paterna: quasi certamente il termine ebraico designa qui l'aramaico (come nel contemporaneo Flavio Giuseppe, Guerra giud., vi, 96; cfr. v, 272, 361; ecc.), giacché ai tempi di Matteo in Palestina si parlava aramaico; ad ogni modo, ebraico o aramaico che fosse, la lingua primitiva semitica era inaccessibile ai cristiani di stirpe non giudaica e anche a moltissimi altri provenienti dal giudaismo della Diaspora, i quali non conoscevano altro che il greco. Ma l'ostacolo fu superato, bene o inale, nella maniera accennata dallo stesso Papia: i detti, nel loro testo originale semitico, andarono in mano ai vari lettori e catechizzatori, ciascuno poi li interpretò com'era capace. Le quali parole lasciano intravedere un ampio lavorìo sorto ben presto attorno a un testo cosi opportuno e autorevole: alcuni catechizzatori ne avranno tradotto oralmente, in maniera estemporanea, quegli squarci che volta per volta occorrevano al loro ministero; altri avranno anche apprestato traduzioni scritte, e queste poterono essere sia parziali sia, più raramente, totali; non dovettero anche mancare scritti che, come la Spiegazione dello stesso Papia, erano piuttosto di esegesi illustrativa che di semplice traduzione. Ma l'osservazione di Papia, che ciascuno interpretò com'era capace, fa anche comprendere che in tutto quel lavorio la buona volontà spesso non era accompagnata da un'adeguata perizia, soprattutto riguardo alla conoscenza della lingua da cui si traduceva o anche in cui si traduceva. E’ anche del tutto possibile che i molti, che nel sesto decennio del secolo I avevano gia scritto sui fatti di Gesù (§ 110), usufruissero ampiamente della composizione di Matteo, pur unendola con altri elementi desunti dalla tradizione di testimoni o di loro discepoli.
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