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domenica 6 marzo 2011

898 - Vita di Gesù (paragrafi 74-79)

§ 74. Oltre al sabbato, festa settimanale, il giudaismo osservava al­tre feste periodiche, di cui le principali erano la Pasqua, la Penteco­ste e i Tabernacoli. Queste tre erano chiamate “feste di pellegri­naggio”, perché ogni Israelita maschio giunto a una certa età (nel fissar la quale non erano ben d'accordo i rabbini) era obbligato a re­carsi al Tempio di Gerusalemme. La solennità della Pasqua si celebrava nel mese chiamato Nisan, che andava circa dalla metà del nostro marzo alla metà di aprile. La Pasqua cadeva la sera del giorno 14 di detto mese, ma si riconnet­teva immediatamente con “la festa degli azimi” che si celebrava nei sette giorni seguenti (15-21 Nisan); perciò praticamente questi otto giorni (14-21) erano chiamati sia Pasqua sia Azimi. Fin dalle ore 10 o lì del giorno 14 Nisan ogni minimo frammento di pane fermentato era fatto scomparire da tutte le case giudaiche, essendo di stretto rigore per il resto di quel giorno e per tutti i sette giorni seguenti l'uso del pane azimo. Nel pomeriggio dello stesso giorno 14 avveniva l'immolazione delle vittime pasquali, cioè degli agnelli. L'immolazione era fatta nell'atrio interno del Tempio, dal capo dì famiglia o di gruppo che recava l'agnello; il sangue delle vittime era raccolto e quindi consegnato ai sacerdoti, i quali lo spargevano pres­so l'altare degli olocausti; subito dopo l'immolazione, nell'atrio stesso del Tempio la vittima era spellata e privata di alcune parti interne, e dopo questa preparazione era riportata nella famiglia o nel grup­po a cui apparteneva. In quel pomeriggio del 14 Nisan gli atrii del Tempio diventavano necessariamente tutto un carnaio sanguinolento. Enorme, infatti, era l'affluenza di Giudei provenienti sia dalla Palestina sia dalla Dia­spora, e non potendo l'atrio del Tempio contenere tutti insieme co­loro che vi venivano a scannare l'agnello, si stabilivano da circa le 2 pomeridiane in poi tre turni d'accesso, e fra un turno e l'altro si chiudevano le porte d'entrata. Flavio Giuseppe ci fornisce occasio­nalmente un computo preciso fatto nell'interesse delle autorità ro­mane ai tempi di Nerone, probabilmente nell'anno 65, da cui risulta che nel solo pomeriggio pasquale di quell'anno furono scannate ben 255.600 vittime; un gregge siffatto, benché di agnelli, era bastevole a produrre come un lago di sangue da far rosseggiare tutti i lastricati e i muri del Tempio.


§ 75. Riportato in famiglia, l'agnello immolato era arrostito la sera stessa per il banchetto pasquale. Questo cominciava dopo il tramonto del sole per prolungarsi regolarmente fino alla mezzanotte, ma talvolta anche oltre. A ciascuna mensa partecipavano non meno di dieci persone e non più di venti, che prendevano posto su bassi divani sdraiandovisi per lungo in maniera concentrica alla tavola delle vivande. Era di prescrizione che vi circolassero almeno quattro coppe di vino rituali, tuttavia anche altre non rituali potevano cir­colare prima della terza rituale, ma non già fra la terza e la quarta: non nsulta con sicurezza se tutti i commensali bevessero a una stessa coppa, d'ampie dimensioni, ovvero ciascuno avesse la propria; forse ambedue le usanze erano ammesse. Si cominciava mescendo la prima coppa e recitando una preghiera, con cui si benediceva in primo luogo la giornata festiva e poi il vino (o viceversa, secondo un'altra scuola rabbinica). Quindi si re­cavano in tavola, insieme con il pane azimo, erbe agresti e una salsa speciale (haroseth) nella quale s'intingevano le erbe; dopo ciò, si recava l'agnello arrostito. Si mesceva allora la seconda coppa, e il capo famiglia, di solito dopo una domanda convenzionale del figlio, faceva un piccolo di­scorso per spiegare il significato della festa, ricordando i benefizi del Dio Jahvè verso la prediletta nazione e la liberazione di questa dal­l'Egitto. Si consumava quindi l'agnello arrostito insieme con l'erbe agresti, mentre circolava la seconda coppa. Si passava poi a recitare la prima parte dell'Hallel, inno costituito dai Salmi ebraici 113-118 (Vulgata 112-117); dopo di che si recitava una benedizione con cui cominciava un vero banchetto, preceduto dalla usuale lavanda di mani ma non regolato da particolari cerimonie e costituito da vi­vande varie. Si mesceva quindi la terza coppa, e si pronunziava una preghiera di ringraziamento; poi si recitava la seconda parte del­l'Hallel, e infine si mesceva la quarta coppa. Questo è il rito della Pasqua giudaica qual è descritto, pur con ta­lune imprecisioni, dalla tradizione rabbinica si può ritenere che esso rispecchi, almeno nelle linee generali, l'uso seguito ai tempi di Gesù dalla corrente dei Farisei, e perciò anche dalla gran maggioranza del popolo che le andava appresso.

§ 76. La festa successiva alla Pasqua era quella detta delle (sette) Settimane, o Pentecoste quest'ultimo appellativo è greco “cinquantesima giornata” e designa, come il precedente, lo spazio di tempo che divideva la Pentecoste dalla Pasqua. La festa durava un sol giorno, in cui si offrivano al Tempio i nuovi pani della messe testé compiuta, insieme con sacrifizi speciali; non era festa di carat­tere molto popolare, tuttavia era assai frequentata da Giudei che venivano dalle varie regioni lontane della Diaspora, cadendo la festa nella stagione propizia alla navigazione e ai lunghi viaggi. Circa sei mesi dopo la Pasqua veniva la festa detta dei Tabernacoli o delle Capanne, che cadeva ai 15 del mese Tishri, cioè tra la fine di settembre e il principio di ottobre, e durava otto giorni. Era festa gaia e popolarissima, e poiché ricordava la dimora degli antichi Ebrei nel deserto e insieme celebrava la fine della vendemmia e delle raccolte agricole, il popolo sulle piazze e sulle terrazze costruiva con verdi rami capanne a guisa di tabernacoli, e ivi s'intratteneva: donde il nome della festa. Inoltre si andava al Tempio recando con la ma­no destra un fascetto di palma con mirto e salice (il Lulab o Lolab, frequentemente raffigurato nelle catacombe giudaiche), e con la si­nistra un frutto di cedro. Nella notte del primo giorno della festa il Tempio era illuminato sfarzosamente, e nelle mattine dei primi sette giorni un sacerdote spandeva sull'altare una piccola quantità d'acqua attinta processionalmente alla fonte di Sibe.


§ 77. Ai 10 dello stesso mese Tishri cadeva la solennità dell'Espia­zione o del Kippur, ch'era di riposo e di digiuno assoluto. In essa officiava il sommo sacerdote in persona, che entrava questa sola volta in tutto l'anno - nel « santo dei santi » del Tempio (§ 47), e compieva la simbolica liturgia del capro espiatorio (Levitico, 16; Ebrei, 9, 7). Feste di carattere popolare erano anche altre due. Quella delle Encenie o della Dedicazione, che cadeva ai 25 del mese Kislew (fine di dicembre), durava otto giorni e ricordava la riconsacrazione del Tempio fatta da Giuda Maccabeo nel 164 av. Cr.: si chiamava an­che « festa dei lumi », per le grandi luminarie che vi si accendevano, ed aveva l'indole di un trionfo nazionalistico. La festa dei Purim “sorti”, che scadeva ai 14 e 15 del mese Adar (febbraio-marzo), ricordava la liberazione dei Giudei per mezzo delle sorti ai tempi di Esther. Sebbene solo in occasione del Kippur fosse d'obbligo il digiuno per ogni Giudeo, tuttavia si osservavano anche altri digiuni pubblici o privati. Molti digiunavano spontaneamente quando cadevano gli an­niversari di calamità passate, ad esempio della distruzione di Ge­rusalemme fatta da Nabucodonosor nel 586 av. Cr.; ma digiuni pubblici potevano essere anche prescritti dal gran Sinedrio in occa­sione di calamità presenti, come epidemie, siccità e simili. Frequenti erano anche i digiuni fatti per devozione privata; specialmente i Fa­risei tenevano molto al digiuno del lunedì e del giovedì.


§ 78. I concetti religiosi del giudaismo ai tempi di Gesù sono stati oggetto di ampi ed accurati studi recenti, i quali giustamente hanno messo a profitto i vari scritti apocrifi e rabbinici che nel passato erano di solito trascurati. Si ritrova pertanto che in quei concetti i principii fondamentali dell'antica religiosità ebraica sono general­mente conservati, ma spesso sono stati modificati, talvolta anche tra­visati, e soprattutto hanno ricevuto applicazioni e sviluppi di cui non esiste traccia negli antichi scritti dell'ebraismo. Esamineremo brevemente alcuni di quei concetti che abbiano più attinenza con la vita di Gesù. La fede nel mondo degli spiriti è assai più sviluppata che ai tempi immediatamente successivi all'esilio di Babilonia e più ancora che ai tempi ad esso anteriori. Occasione a questo sviluppo fu il contatto avuto durante e dopo l'esilio con i Persiani, il cui mazdeismo aveva un'ampia angelologia tuttavia la fede giudaica negli spiriti si con tiene sempre dentro l'ortodossia di un rigoroso monoteismo, perché ignora il principio dualistico del mazdeismo, considera tutti gli spi­riti come essen subordinati all'unico Dio, nè estende agli spiriti il culto proprio alla Divinità. Innumerevoli sono gli spiriti e distinti in due categorie, buoni e cat­tivi: i primi sono ministri particolari della Divinità e amici dell'uo­mo, i secondi sono subordinati alla potenza divina ma ostili ad essa e nemici dell'uomo. Gli uni e gli altri, benché spirituali, non sono to­talmente immateriali, bensi provvisti come d'una sostanza eterea e fluente, che è luminosa od opaca a seconda delle qualità buone o cattive dei singoli spiriti. Specialmente gli scritti apocrifi, che rappresentano spesso le creden­ze più divulgate e popolari, sono informatissimi circa il mondo degli spiriti. Di quei buoni, alcuni sono chiamati “angeli della Faccia”, perché stanno perennemente dinanzi alla faccia di Dio, altri sono gli “angeli del Ministero”, perché inviati per ministero presso gli uo­mini. Di questi ultimi, una parte è addetta al governo degli astri e della terra, un'altra a quello delle varie stirpi e nazioni umane o anche dei singoli individui; taluni fanno da guida alle anime dei morti nel loro cammino d'oltretomba, altri hanno l'incarico di tor­mentare i demonii. Esiste anche una gerarchia fra gli spiriti buoni: oltre alle classi dei Seraphim e dei Kerubim, già note all'antico ebraismo, appare la classe degli Ophanim, i quali non dormono mai facendo la guardia al trono della maestà (divina) (Henoch, 71, 7 segg.). Sette particolari spiriti si tengono sempre alla presenza della Divinità, e quattro di essi sono Michele, Rafaele, Gabriele e Uriel: quest'ultimo è scam­biato spesso con Fanuel (cfr. Henoch, 9, 1; 20, 1-8; 40, 9-10; ecc.). Ordinariamente Michele è il vindice della gloria di Dio; Rafaele è l'angelo delle guarigioni corporali; Gabriele è l'angelo delle rivela­zioni particolari; UrieI è il conoscitore dei fatti occulti. Si era incerti a quale dei sei giorni della creazione assegnare la crea­zione degli angeli: taluni l'assegnavano al primo giorno, altri al se­condo, altri al quinto. Incerta era anche l'origine degli spiriti cat­tivi: secondo alcuni, essi erano gli spiriti dei “giganti”, nati dal commercio di alcuni angeli che si lasciarono sedurre dalle figlie de­gli uomini (cfr. Genesi, 6, 1 segg.); ma più attestata è l'altra opinione secondo cui gli spiriti cattivi sono antichi angeli decaduti dal loro stato di gloria. Loro capo è un essere che dapprima era stato chia­mato con appellativo comune il satan, cioè “l'accusatore”, “l'avversario”, sempre preceduto dall'articolo: più tardi, invece, questo appellativo divenne nome proprio, perdendo l'articolo, Satan; altri suoi appellativi più recenti sono quelli di Beliai (Beliar), Beelzebul (Beelzebub), Asmodeo, Mastema, e qualche altro di provenienza varia. Gli spiriti cattivi vagano negli strati aerei più bassi, o dimorano in luoghi deserti, fra ruderi, nelle tombe, in altri luoghi impuri, tal­volta anche in edifici abitati dall'uomo: spesso prendono sede nel corpo stesso dell'uomo, impossessandosi di lui. Dentro e fuori queste dimore agiscono essi, a preferenza di notte, sempre per insidiare e danneggiare gli uomini. I mali, fisici o morali, sono causati o fa­voriti da essi, che arrecano malattie, infortuni, demenza, scandali, discordie, guerre: essi tentano i giusti, guidano gli empi, diffondono l'idolatria, insegnano la magia, si oppongono insomma sistematicamente alla Legge del Dio d'Israele.


§ 79. Non meno dell'angelologia sono sviluppate, ai tempi di Ge­sù, le credenze nell'oltretomba. Su questo argomento l'antico ebrai­smo - stando almeno ai documenti pervenuti fino a noi si era man­tenuto in una grande imprecisione di concetti, sebbene qua e là alcune affermazioni solitarie inducano a sospettare che il relativo pa­trimonio concettuale fosse in realtà più ricco di quanto risulti a noi; ad ogni modo i concetti fondamentali dell'oltretomba erano stati anticamente i seguenti. La dimora dei morti era chiamata Sheol, sempre femminile, immaginata quale immensa caverna posta nei sotterranei del co­smo. Ivi i trapassati, i Rephaim “spossati”, “assopiti” vagavano come ombre su una terra di tenebre e di oscurita, terra di buio e di caligine (Giobbe, 10, 21-22), sebbene altrove si parli di quelle ombre come tuttora animate da passioni umane (Isaia, 14, 9 segg.) e suscettibili di entrare in comunicazione con i viventi per mezzo dell'evocazione necromantica (I Samuele, 28, 8 segg.). Dalla Sheol nessuno, che vi sia disceso, può mai risalire (Giobbe, 7, 9-10; 10, 21; tuttavia cfr. il celebre e disputato passo di 19, 23-27). Nessuna san­zione morale di premio o di pena per gli abitatori della Sheol, quale conseguenza della condotta tenuta durante la vita terrena, è attestata in maniera ben chiara e con precisione inequivocabile nei documen­ti più antichi.
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