§ 54. I sacerdoti erano raggruppati in 24 classi, le quali s'avvicendavano ogni settimana nel ministero del Tempio. Ciascuna classe aveva a capo un sacerdote da cui prendeva il nome, e i suoi dipendenti erano designati alle singole incombenze del ministero per mezzo delle sorti (cfr. Luca, 1, 5-9). I più dei sacerdoti dimoravano in Gerusalemme stessa o nei suoi immediati dintorni; ma taluni risiedevano in borgate piuttosto distanti, ove ritornavano terminata che fosse la loro muta di servizio in Gerusalemme: altrettanto facevano i semplici Leviti (cfr. Luca, 1, 23; 10, 31-32). L'ufficio proprio ai sacerdoti era quello liturgico. Conoscere esattamente i requisiti necessari in un animale da offrirsi in sacrifizio, la misura di una data libazione sacra, i riti preparatori ed esecutivi di certe oblazioni, le prescrizioni da osservarsi in determinate funzioni, e in genere tutte le norme scritte o tradizionali riguardanti la materialità della liturgia, costituiva la scienza di cui andava fiero il sacerdote. Nella società teocratica egli eseguiva con esattezza quelle uccisioni d'animali, quegli spargimenti di sangui, quei bruciamenti d'incensi, che Dio stesso aveva prescritti e richiesti: con ciò il sacerdote aveva compiuto il suo ufficio, rendendosi benemerito verso la società più d'ogni altra persona, perché con quei sangui e con quegli incensi aveva placato Dio e ne aveva assicurato la protezione sulla collettività. La partecipazione dello spirito alla materialità del rito era stata bensì' oggetto della predicazione degli antichi profeti, ma di fatto entrava ben poco nelle attribuzioni della “professione” esercitata dal sacerdote ebraico. Alle discussioni in voga fra Scribi e Farisei, la maggior parte dei sacerdoti restava aliena. Per il “professionista” sacro esisteva la Legge scritta, quella da cui i suoi privilegi sacri erano garantiti, e cercare più in là sarebbe stato perdita di tempo; ché se qualche raro sacerdote prendeva parte a tali discussioni, era solo per impugnare e respingere quanto andavano affermando quei petulanti e plebei di Farisei, verso i quali non nutriva che altezzoso disprezzo. E questa attitudine d'aristocratica superiorità era mantenuta tanto più da quei sacerdoti che, dopo il sommo sacerdote, occupavano gli uffici più alti del Tempio, come quelli di capitano del tempio (Atti, 4, 1; 5, 24-26), di tesoriere, e altri onorifici e lucrosi; già udimmo da fonte rabbinica che tali uffici erano accaparrati abitualmente da membri delle “famiglie di sommi sacerdoti”.
§ 55. Sarebbe certamente falso credere che questa combriccola parentale, formatasi sul vertice, fosse degna rapprentante di tutti coloro che stavano più in basso, o anche che i discendenti di Levi fossero indistintamente ottusi mestieranti di liturgia, privi di religiosità vera: al contrario, soprattutto fra il basso clero costituito dai Leviti e anche fra i sacerdoti di famiglie meno cospicue e meno urbanizzate, dovevano essere numerosi gli spiriti profondamente religiosi, che segretamente ripensavano agli antichi benefizi fatti da Dio ad Israele e aspettavano ansiosamente quelli promessi per il futuro. Per citare un solo esempio, da una di queste famiglie rurali di sacerdoti era stato iniziato nel 166 av. Cr. il risorgimento nazionale dei Maccabei, che aveva richiamato a nuova vita il giudaismo in forza di principii nazionali-religiosi. Ad ogni modo, questa porzione buona e sana del levitismo era - come avviene sempre - la meno vistosa e rumorosa, la meno atta a far parlare di sé nelle ordinarie vicende della vita sociale : gli occhi del popolo erano attirati, invece, da quei fastosi ed altezzosi sacerdoti che spadroneggiavano nel Tempio e che si spartivano la direzione degli affari pubblici col procuratore romano, col quale s'intendevano abbastanza bene; cotesti pezzi grossi della finanza e della politica - se non della religione - erano agli occhi della plebe il sacerdozio pratico, i discendenti effettivi di Levi e di Eli.
§ 56. Era quindi naturale che la plebe non li amasse. Una tradizione rabbinica riferisce che una volta il popolo esasperato urlasse nell'atrio del Tempio: Uscite via di qua, uscite via di qua, figli di EliI Avete insozzato la casa del nostro Dio! (Sukkah, pal., iv, 54 d). I figli di Eli erano i legittimi sacerdoti di Dio Jahvè, che dal popolo non erano dunque graditi; ma saranno stati essi graditi dal loro stesso Dio Jahvè? A questo proposito abbiamo notizia di un fatto straordinario, che merita di essere ricordato sia per il singolare momento storico in cui sarebbe avvenuto, sia perché la sua notizia è trasmessa concordemente dal giudeo Flavio Giuseppe e dal pagano Cornelio Tacito. Narra lo storico giudeo che, in uno degli ultimi anni prima della catastrofe nazionale e dell'incendio del Tempio, nella festa che si chiama Pentecoste, essendo giunti i sacerdoti nel tempio interno - com'era loro costume per gli uffici liturgici - aflermarono che dapprima avevano avvertito una scossa ed un colpo, e poi una voce collettiva “Noi ce ne partiamo di qua”. Colui che abitava in permanenza nel Tempio di Gerusalemme e in quel momento se ne partiva, era Jahvè, Dio d'Israele, che qui parla in prima persona plurale (come già in Genesi, 1, 26, allorché crea l'umanità). In questa stessa maniera intende il fatto anche lo storico pagano. Accettando come vero questo fatto, bisognerebbe concludere che, non avendo i figli di Eli abbandonato il Tempio alle grida del popolo esasperato, Dio stesso lo abbandonò lasciando ai sacerdoti un Tempio che era ormai vuoto di Dio. E allora quel Tempio crollò per sempre.
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