Ricordando, con le parole stesse di Gesù, l’ineffabile dono dell’Eucaristia, bisognerebbe solo deporre la penna e piangere di riconoscenza e di amore! Pensare ad un Dio disceso dal cielo è una cosa che intenerisce, e suscita nel cuore l’amore più vivo; ma il considerare che Egli si è immolato e si è dato a noi come Cibo e come bevanda, rimanendo con noi vivo e vero, è una cosa che dà le vertigini.
Tu sei qui, mio Gesù, nel tabernacolo del tuo amore; sei con me, con me, nell’arcano silenzio della tua carità, Vittima perenne, Agnello di Dio, Arca di alleanza, Trono di grazia, Tesoro ineffabile che attrai tutte le nostre brame, Perla preziosa, nascosta nella nostra terra che ci spinge a tutto dare per averla, Aiuto e Sostegno della nostra vita soprannaturale, e Gioia perenne del nostro esilio!... Gesù Sacramentato! Qual dono ineffabile!
Se gli apostoli avessero potuto capirne la grandezza, non avrebbero potuto resistere alla piena dell’amore quando Gesù Cristo la istituì; bisogna riconoscere che Egli dovette nascondersi ai loro cuori per non farsi scorgere, rendendoli, così, capaci di poter vivere ancora, dopo un contatto tanto pieno e profondo con la sua vita!
O mio Gesù, l’anima mia non sa frenarsi, e si sente come liquefare al ricordo di quei momenti ineffabili nei quali il tuo amore si effuse con tanta pienezza, nonostante l’ingratitudine umana.
Proprio quando Giuda strinse col sinedrio il patto infame per consegnare Gesù nelle mani dei suoi nemici, Egli strinse, con l’umanità, il patto d’amore, per ridonarla a Dio; a Lui preparavano la morte, ma Egli preparava a noi la vita. È un contrasto che ci fa apprezzare maggiormente la pienezza del suo amore.
Gesù Cristo scelse una grande solennità, la Pasqua, per istituire il Sacramento del suo amore che era il compimento mirabile delle figure e delle profezie che lo preannunciavano. Nella Pasqua si riunivano le famiglie in maggiore intimità, e mangiavano l’agnello dopo averlo immolato al tempio; era il rinnovarsi del ricordo della liberazione dall’Egitto, ed era il sospiro alla liberazione che doveva apportare la redenzione; era un sacrificio di ringraziamento, e una solenne invocazione al Re atteso da secoli. Gesù Cristo volle unire la figura alla Realtà, e proprio nella Cena pasquale si donò come Agnello di vita e di liberazione.
Nel primo giorno degli Azzimi, cioè della solennità pasquale nella quale si mangiava il pane non fermentato, gli apostoli domandarono a Gesù dove volesse che preparassero il banchetto. Essi erano pellegrini nella Giudea, e avevano necessità di essere ospitati da qualche persona amica. Gli Ebrei, infatti, avevano, nelle case, delle stanze più ampie dove avvenivano le riunioni familiari e la preghiera comune, e le cedevano volentieri a quelli che peregrinavano per la Pasqua.
Gesù Cristo, conoscendo già l’imminente tradimento di Giuda, non volle che egli sapesse in anticipo il luogo del suo convegno pasquale, affinché non avesse potuto ordire una congiura con i principi dei sacerdoti, e disturbare la festa del suo amore. Ordinariamente era proprio Giuda che si occupava delle necessità temporali degli apostoli, ma questa volta Gesù incaricò Pietro e Giovanni di trovare un cenacolo ospitale e preparare la Pasqua. Egli li mandò, dando loro delle indicazioni per rintracciare la persona amica, e fece così perché Giuda non avesse potuto conoscerla precedentemente.
Le indicazioni che Gesù diede a Pietro e a Giovanni, per quanto semplici, mostravano che egli conosceva tutto antecedentemente; essi avrebbero incontrato un uomo che portava una anfora d’acqua; dovevano dunque dirigersi verso la fontana pubblica. Il Redentore sapeva che avrebbero trovato non un uomo qualunque, ma il servo di una famiglia conosciuta e amica. Forse il cenacolo era di proprietà di uno dei suoi amici occulti, forse di Nicodemo, ed Egli, delicatamente, non volle comprometterlo. Giuda avrebbe potuto denunciarlo, e se avesse ordito la cattura proprio nel cenacolo, avrebbe causato un disturbo grandissimo al padrone del luogo.
La delicata, divina signorilità di Gesù gli faceva evitare qualunque penosa sorpresa a colui che l’avrebbe ospitato.
L’immediata condiscendenza del padrone della casa mostra che egli era generoso e affezionato al Redentore, e perciò gli apostoli poterono preparare sollecitamente quanto occorreva alla cena.
Calata la sera, cioè verso le sette, quando già il cielo era tutto oscurato e comparivano le stelle, Gesù si recò al cenacolo con i suoi discepoli, cominciando, prima di tutto, la cena legale dell’agnello, secondo i riti comandati.
Quella cena era come una preparazione al grande banchetto d’amore che Egli stava per istituire; sebbene vi si mangiasse era un rito di preghiera e di riconoscenza a Dio, e potremmo dire era come una meditazione sui benefici fatti da Dio al suo popolo. Verso la fine del banchetto pasquale, il volto di Gesù si atteggiò ad una grande tristezza e, rivolto ai suoi cari, disse: In verità vi dico che uno di voi mi tradirà, uno che mangia con me. Era il richiamo che faceva a Giuda perché si fosse pentito del suo orribile peccato e non l’avesse consumato. Gesù non poteva tollerare che al suo banchetto ci fosse un’anima in disgrazia di Dio e, nel suo infinito amore, cercò di farlo ritornare in sé. Non parlò più esplicitamente per carità, e volle che Giuda stesso avesse confessato il suo peccato, pentendosene.
In un banchetto familiare, l’intimità dell’amore è più profondo e più confidenziale; la parola accorata di Gesù fu quindi, per gli apostoli, come un colpo di folgore. Si rattristarono, e cominciarono a domandargli tutti: Sono forse io? Lo domandò anche Giuda – come ci dice san Matteo (26,25) –, per non svelarsi, rendendosi sospetto, ma Gesù non volle parlare a tutti più esplicitamente, e determinò solo che era uno dei dodici. San Matteo dice che parlò a Giuda chiaramente, ma senza farne accorgere agli altri, com’è evidente dal contesto; Giuda, però, rimase impassibile; per questo Gesù Cristo soggiunse quelle terribili parole: Guai a quell’uomo per cui il Figlio dell’uomo sarà tradito; sarebbe stato meglio, per quest’uomo, che non fosse mai nato. Volle scuotere il cinismo ripugnante del traditore per non privarlo di un’ultima grazia e, almeno col timore, tentò di farlo pentire, ma inutilmente; egli s’era come impietrito nel suo peccato.
L’annuncio del tradimento addolorò immensamente gli apostoli, e li predispose indirettamente ad un maggiore raccoglimento interiore. Li concentrò nel divino Maestro con un amore più tenero, e li raccolse in un certo esame di coscienza sulle responsabilità che potevano avere; questo concorse a prepararli al gran dono che Gesù stava per fare loro. Con la semplicità che il Signore ha in tutte le sue grandi opere, il Redentore prese il pane e, dopo averlo benedetto, lo spezzò e lo diede a tutti, pronunciando una parola onnipotente che lo transustanziò nel suo Corpo divino: Questo è il mio Corpo. Poi prese il calice col vino, rese grazie a Dio per il beneficio che concedeva a tutti, e lo distribuì a tutti perché lo bevessero, dicendo: Questo è il mio Sangue del Nuovo Testamento, il quale sarà sparso per molti.
Poche parole, pochi momenti, bastarono a creare il miracolo più grande di amore.
Gli apostoli quasi non se ne accorsero, ma non poterono non sentire in loro una nuova vita. Erano tutti congiunti al loro Maestro come un solo corpo e un’anima sola; erano il Corpo mistico di Lui, avendo in loro la sua vita; erano innanzi al Padre celeste come creature nuove, illuminate dalla presenza del loro Redentore. Egli era a mensa come tutto trasfigurato, ineffabile nel suo sguardo di infinita carità, Sole divino che irradiava nei suoi cari! Quali momenti! Nessuna madre ha avuto mai simile tenerezza per i suoi figli, e li ha sentiti così carne della sua carne e sangue del suo sangue. Nessuna effusione d’amore ha potuto raggiungere questa che dona la vita del Redentore come vita nostra!
Don Dolindo Ruotolo
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