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sabato 8 dicembre 2012

1997 - Vita di Gesù (paragrafi 597-601)


La crocifissione e la morte

§ 597. La sentenza oramai era stata data, e non restava che ese­guirla. Il rappresentante di Roma aveva inflitto seconda la richiesta degli accusatori una pena romana, poiché quando i Giudei avevano gri­dato a Pilato: Crocifiggi! Crocifiggi! avevano chiesto in realtà una pena che originariamente non era giudaica ma romana. Nell'impu­tazione di bestemmia fatta a Gesù nel Sinedrio la pena giudaica nor­male sarebbe stata la lapidazione, che difatti fu applicata a Stefa­no poco dopo; tuttavia la crocifissione, ai tempi di Gesù, era entrata già da molti anni negli usi del giudaismo palestinese, introdottavi al tempo delle sue prime relazioni con i Romani, e specialmente dal 63 av. Cr. quando Pompeo Magno espugnò Gerusalemme e dette un nuovo assetto politico a tutta la regione; prima di quell'epoca l'ebrai­smo aveva conosciuto l'impalamento, pena comunissima negli antichi imperi di Babilonia e d'Assiria e da così più tardi derivò la vera cro­cifissione. Ma anche nella Roma antica la crocifissione non era stata originaria bersì importata; prima che in Roma la crocifissione era praticata in Grecia, in Egitto e in molte altre regioni mediterranee, ove era stata diffusa probabilmente dai Fenici, arditi navigatori e in­stancabili commercianti. Roma ebbe sempre della crocifissione un vero spavento: è il meno che si possa dire, anche restringendosi alle frasi frasi impiegate da Cice­rone quando accenna ad essa nei suoi discorsi contro Verre la chiama ora “supplizio il più crudele e il più tetro”, ora “estremo e sommo supplizio della schiavitù”, o in altre maniere somiglianti. Era infatti la pena riservata ordinariamen­te agli schiavi, e solo per delitti assai gravi; tanto che lo schiavo era talvolta chiamato sarcasticamente “portatore di croce”e uno di essi poteva esclamare comicamente: So che la croce sarà il mio sepolcro. Là sono collocati i miei antenati, padre, nonno, bi­snonno, trisnonno (Plauto, Miles gloriosus, 2, 4, 372-373). Nessun cittadino romano poteva essere legalmente crocifisso secondo l'opinio­ne di Cicerone, il quale esclama inorridito: Che un cittadino roma­no sia legato, è un misfatto; che sia percosso è un delitto; che sia ucciso, è quasi un parricidio; che dirò, dunque, se è appeso in croce? A cosa tanto nefanda non si può dare in nessun modo un appellativo sufficientemente degno! (In Verrem, II, 5, 66). Tuttavia, in linea di fatto, risulta che più d'una volta cittadini romani furono crocifissi; e anche in linea di diritto sembra che i liberti e taluni provinciali, sebbene cittadini romani, potessero ricevere questo estremo supplizio. 

§ 598. Prescindendo da forme più antiche, la croce ai tempi di Gesù aveva le tre seguenti forme: la prima a sinistra era chiamata “croce immissa” capitata, rife­rendosi al tratto più corto, quello superiore, che faceva da “capo”; la seconda era la “croce commissa”, ed era l'unica che avesse tre soli bracci essendo priva di “capo”; la terza, poco in uso, era la croce decussata o di sghembo, quella detta comunemente “croce di S. Andrea”.
Fra le due prime forme, la croce immissa ha molto maggiore probabilità della croce commissa di essere stata impiegata per Gesù (§ 606). In essa si distinguevano due parti il palo verticale, chiamato stipes staticulum, da piantarsi in terra; e il palo orizzontale, chiamato patibulum antenna, che soltanto in un secondo tempo si univa col palo verticale. Ma il palo verticale non era totalmente liscio e piano: verso la sua metà sporgeva un tozzo e robusto zoccolo, chia­mato alla greca pegma o alla latina sedile, su cui veniva a poggiarsi a cavalcioni il corpo del crocifisso; molto esattamente Giustino mar­tire e Tertulliano rassomigliano questa sporgenza a un corno in ge­nere e più particolarmente a quello del rinoceronte. Questo sostegno, del resto, era assolutamente necessario: sarebbe stato infatti impos­sibile che il corpo del condannato si reggesse sulla croce con i quattro chiodi soltanto, perché le mani trafitte si sarebbero strappate ben presto per lo sproporzionato peso, e la ragione è cosi evidente che artisti cristiani antichi raffigurarono la croce di Gesù con un suppe­daneum, su cui poggiano e sono inchiodati i piedi; questo suppeda­neum, di cui non esiste alcun accenno nei documenti antichi, è ar­cheologicamente falso e all'atto pratico neppure sarebbe bastato a so­stenere il corpo, tuttavia lo sbaglio archeologico dimostra la necessità del sedile, archeologicamente giusto. 

§ 599. Pronunciata una sentenza di crocifissione, si preparava - se già non era pronto - il luogo dell'esecuzione piantandovi il palo ver­ticale o stipes, privo ancora di quello orizzontale. Il palo verticale ordinariamente non era alto infatti i piedi del condannato resta­vano sollevati dal terreno di solito per l'altezza d'un uomo o anche meno, e perciò l'intero palo non poteva essere più alto di 4 o 5 metri. Quanto al luogo, se ne sceglieva uno assai in vista e frequentato, per­ché si contava sull'effetto esemplare che lo spettacolo doveva produr­re su schiavi ed altri abietti individui punibili di croce; si preferiva­no perciò luoghi di gran transito, subito fuori di città ma vicino a qualche porta delle mura, e possibilmente framezzo a tombe ciò è quanto risulta, oltreché da altre testimonianze, anche dal beffardo racconto della matrona di Efeso di Petronio l'Arbitro (Satiricon, 111-112). A Roma, per esempio, il luogo ordinario delle crocifissioni era il Campus Esquilinus, subito fuori delle mura di Servio Tullio e vicino alla Porta Esquilina: in questo campus, corrispondente circa all'odierna piazza Vittorio Emanuele, erano anche mol­tissime tombe di patrizi e di schiavi; ivi in alto volteggiavano a frot­te i tetri uccelli dell’Esquihno ricordati da Orazio, attirativi dai ca­daveri dei crocifissi che rimanevano insepolti. La crocifissione era preceduta dalla flagellazione del condannato, la quale talvolta gli era inflitta lungo il cammino per recarsi al luogo del supplizio. Il condannato era affidato ai soldati, di solito quattrocomandati da un centurione che aveva l'ufficio di riscontrare la morte del crocefissoSulle spalle del condannato si poneva, e talvolta si legava, il palo orizzon­tale della croceun servo di giustizia portava davanti a lui una tavoletta su cui era scritto in caratteri ben visibili il delitto del condannato che aveva motivato la sentenza: talvol­ta, invece, la tavoletta veniva appesa al collo del condannato stes­so. Avviatosi il corteo verso il luogo del supplizio, si passava a pre­ferenza per le strade più popolose e frequentatedice in propositò Quintiliano), sempre per dar pubbli­cità all'esecuzione. Lungo il cammino il condannato, anche se non riceveva la flagella­zione, era fatto egualmente segno ad ogni sorta di ludibri da parte della plebaglia incuriosita e inferocita: il crocifiggendo non era più un uomo, ma un fuorilegge e un immondezzaio ambulante.

§ 600. Giunto sul luogo del supplizio, vicino al palo già piantato in terra, il condannato veniva spogliato delle sue vesti, se non era già nudo per aver ricevuto la flagellazione lungo la strada. La nudità to­tale del crocifiggendo era d'uso comune presso i Romani: può darsi tuttavia che, presso qualche popolo più riguardoso su questo punto, il condannato venisse ricoperto alla meglio per pudore col primo straccio che capitava Iì per lì sotto mano. Certamente i Giudei era­no più riguardosi dei Romani e quindi è probabile che la loro delicatezza fosse rispettata dai loro governan­ti: ma la cosa non è storicamente accertata. Così spogliato il condannato veniva disteso a terra supinamente, in modo che sotto di sé lungo le spalle e le braccia aperte avesse il pa­lo orizzontale della croce da lui portato: in tale posizione le mani venivano inchiodate al palo. Compiuto questo primo inchiodamen­to, il condannato - probabilmente per mezzo di una fune che lo ri­cingeva al petto e scorreva poi sull'estremità del palo verticale pian­tato in terra - veniva elevato sul palo verticale in modo da essere collocato a cavalcioni sul sedile. Soltanto se si ha presente l'insie­me di questa manovra si possono spiegare adeguatamente certe frasi usate spesso dagli scrittori romani, quali ascendere crucem, excurrere in crucem, inequitare cruci, o sarcasticamente requiescere in cruce; inoltre, che questa “ascesa” sulla croce fosse fatta dopo che il condannato era già parzialinente inchiodato è dimostrato fra altro dalla frase: patibulo suffixus, crudeliter in crucem erigitur (Fir­mico Materno), ove patibulum designa con esattezza tecnica il palo orizzontale. Sollevato il condannato in questa maniera, il palo orizzontale era congiunto con quello verticale per mezzo di chiodi o di corde; infine s'inchiodavano i piedi. Naturalmente per questa inchiodatura s'im­piegavano due chiodi, non uno solo come ha immaginato spessissi­mo l'arte cristiana, giacché i piedi per la posizione a cavalcioni presa dal condannato finivano per stare quasi ai due lati del palo verti­cale e non avrebbero potuto sovrapporsi l'uno su l'altro; quest'ultima inchiodatura si faceva facilmente dai carnefici ritti in terra, perché come vedemmo i piedi del crocifisso erano all'altezza di una persona.

§ 601. Ridotto in tale stato, il crocifisso aspettava la morte. Esposto qual era in un luogo frequentato, egli vedeva per ore e ore passare sotto di sé gente. d'ogni fatta: patrizi che non lo degnavano d'uno sguardo; bambini che s'incuriosivano del suo corpo livido e tumefatto; mercanti affaccendati che si soffermavano un momento di sfuggita; plebei e schiavi che si divertivano a spiare i segni delle sue sofferenze. Qualche segno di compassione poteva egli scorgere tutt'al più sul viso di qualche parente o di qualche vecchio complice di delitti che s'intrattenesse lì dappresso: ma era sempre una compassione sterile, perché i soldati che stavano di guardia ai piedi del crocifisso impedi­vano a chiunque di avvicinarsi per recare un sollievo qualsiasi; l’uni­ca cosa che potesse raggiungere quell'avanzo umano inchiodato sulla croce era la sassata lanciatagli da lontano per ludibrio dal monello o per vendetta dal rivale in furti. La morte poteva avvenire per dis­sanguamento, per febbre vulneraria, per gli strazi della fame e più ancora della sete, o per altre cause fisiologiche. Spesso non si faceva attendere molto, specialmente a causa della spossatezza prodotta dalla terribile flagellazione che aveva preceduto la crocifissione; ma spesso organismi più robusti resistevano giornate intere sulla croce, spegnendosi a poco a poco in una spaventosa agonia. Talvolta i carnefici acceleravano a bella posta la morte o producendo con un fuoco un denso fumo sotto la croce, o trapassando con un colpo di lancia il corpo del crocifisso, oppure praticandogli il “crurifragio” romano che consisteva nello spezzare i femori dell'agonizzante a colpi di dava. Avvenuta poi la morte, nei tempi più antichi il cadavere rimaneva ancora sulla croce fino alla decomposizione, e fino al totale scempio cbe ne facevano i cani saltando dal basso e gli uccelli calando dal­l'alto; invece, dai tempi circa d'Augusto, si concedeva ordinariamen­te il cadavere ad amici o parenti che l'avessero richiesto alle autorità per seppellirlo. Quanto si è visto fin qui erano le norme generali seguite per tutte le crocifissioni, e furono seguite anche per la crocifissione di Gesù.
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