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venerdì 14 settembre 2012

1801 - Vita di Gesù (paragrafi 515-517)


I Sadducei e la Resurrezione

§ 515. L'insidiosa questione del tributo a Cesare era finita con una sconfitta dei Farisei interroganti, i quali avendo udito furono presi d'ammirazione e lasciatolo se n'andarono (Matteo, 22, 22). Di questa sconfitta si compiacquero i rivali Sadducei, i quali si fecero subito avanti a ritentare per proprio conto una nuova partita; questa avrebbe riguardato l'argomento della resurrezione dei corpi, tenacemente negata dai Sadducei (§ 34) e oggetto di vecchie dispute fra loro e i Farisei. Si presentarono pertanto a Gesù per sottoporgli non la questione astratta della resurrezione, ma un caso concreto, uno di quei “casi” che formavano la delizia delle accademie giudaiche. Cominciarono col citare la legge del “levirato”, con cui Mosè pre­scrive che, se un Ebreo muoia non lasciando figli, il fratello del morto sposi la vedova di lui per procurare una discendenza al defunto (Deu­teronomio, 25, 5 segg.). Ricordata questa legge, essi presentarono il “caso”. C'erano stati sette fratelli, il primo dei quali era morto non lasciando figli, cosicché il secondo fratello aveva sposato la vedova del primo; ma anche costui era morto non lasciando figli, e la don­na era stata sposata dal terzo; altrettanto era avvenuto con tutti i successivi fratelli fino al settimo, e dopo la morte del settimo era mor­ta anche la donna. Ora - chiedevano quei Sadducei - di chi sareb­be stata moglie quella donna, quando fosse risorta insieme con tutti e sette contemporaneamente? Tutti e sette, infatti, avevano egual diritto su di lei. Il caso era tipicamente accademico; ma in fatto d'astruseria e di manierismo si andava oltre, come appare dal seguente “caso” conser­vato nel Talmud. - C'erano 13 fratelli, e 12 di essi morirono senza figli. Le 12 vedove citarono allora il superstite fratello davanti al Rabbi (Giuda I, morto sui primi del sec. III) affinché le sposasse in forza della legge del “levirato”; ma il superstite dichiarò che non aveva rnezzi finanziari per mantenere le 12 aspiranti. Esse allora, tutte d'accordo, dichiararono che ciascuna avrebbe provveduto al mantenimento durante un mese all'anno, e così si sarebbe provve­duto a tutti e 12 i mesi. Senonché il futuro marito delle 12 aspiranti fece cautamente osservare che nel calendario ebraico i mesi dell'an­no erano talvolta 13: ciò infatti avveniva circa ogni 3 anni, quando si intercalava un tredicesimo mese per eguagliare l'ufficiale anno lu­nare con l'anno solare; ma il generoso Rabbi rispose che nel caso di mese intercalato egli avrebbe provveduto al mantenimento. E così avvenne. Dopo 3 anni le 12 vedove rimaritate si presentarono alla casa del Rabbi recando complessivamente 36 bambini, e il Rabbi li mantenne tutti per quel mese.

§ 516. I Sadducei che proposero il loro “caso” a Gesù non s'interessavano di questioni finanziarie, ma di quella della resurrezione. Secondo essi il caso proposto dimostrava che la resurrezione era impossibile, giacché risorta che fosse quella donna avrebbe dovuto essere nello stesso tempo moglie di tutti e sette i risorti mariti: ma poiché ciò era manifestamente una sconcezza e un'assurdità, per questo la resurrezione si dimostrava impossibile. Se poi Gesù avesse tentato di difendere la resurrezione, nello sciogliere il caso proposto si sarebbe cacciato in un ginepraio di ridicolaggini perdendo così ogni credito sulla folla. Questo modo di ragionare presupponeva un concetto della resurrezione molto crasso e materialesco, il quale anche per tale ragione era respinto dai Sadducei mentre tra i Farisei era predominante seb­bene non universale; questo concetto immaginava la resurrezione come il ridestarsi di un dormiente, il quale svegliato che sia si ri­trova nelle stesse condizioni naturali di prima che s'addormentasse. Perciò ai risorti si assegnavano le antiche attività di mangiare, bere, dormire, generare, ecc.; anzi sembrava conveniente che queste atti­vità fossero accresciute e rafforzate, tanto che un cinquantennio dopo Gesù l'autorevole Rabban Gamaliel sentenziava che nella vita futura le donne partoriranno ogni giorno come le galline. Gesù taglia corto a tali fantasticherie puerili, e risponde: Errate, non sapendo le Scritture né la potenza d'iddio. Nella resurrezione infatti (i risorti) né sposano né sono spòsati, ma sono come angeli nel cielo. I risorti saranno bensì gli stessi uomini di prima, ma non già nelle stesse condizioni di prima: la loro nuova condizione sarà come quel­la degli angeli nel cielo. Continuò poi Gesù: Riguardo alla resurrezione dei morti, non leggeste ciò che fu detto a voi da Iddio affermante “io sono il Dio di Abramo e il Dio d'isacco e il Dio di Gia­cobbe”? (Esodo, 3, 6) Non è Dio di morti ma di viventi. Il passo citato da Gesù fa parte della Torah, l'unica Scrittura sacra accettata dai Sadducei (§ 31); questa sembra la ragione come notò già S. Girolamo - per cui Gesù, tralasciando altri passi delle Scritture che attestano più chiaramente le fede nella resurrezione dei morti (§ 80), argomenti da questo passo che a differenza degli altri non poteva essere rifiutato dai Sadducei. Ad ogni modo l'argomentazione è condotta secondo i metodi delle scuole rabbiniche, e presuppone il patrimonio ideale dell'ebraismo il Dio dei patriarchi ebrei è Dio non di morti ma di viventi; dunque quei patriarchi vivono anche dopo la loro morte corporea, e la resurrezione è attestata dalle sacre Scritture.


Il massimo comandamento. Il Messia figlio di David
§ 517. L'alternativa di Farisei e Sadducei continuò ancora in quel giorno operosissimo per Gesù. La risposta data ai Sadducei piacque a uno Scriba presente alla discussione, il quale perciò si fece avanti e propose a Gesù una questione che corrispondeva bene ai metodi rab­binici: Qual e' il comandamento primo di tutti? (Marco, 12, 28) o come è riportata da Matteo (22, 36): Qual (e' il) comandamento (piu') grande della Legge? La Legge scritta infatti, ossia la Torah, con­teneva secondo i rabbini 613 precetti (§ 30), dei quali 248 erano po­sitivi perché comandavano una data azione, e 365 erano negativi per­ché proibivano di fare alcunché: gli uni e gli altri, poi, eran ripartiti in precetti “leggieri” e precetti “gravi” a seconda dell'importanza che si attribuiva loro. Ora, fra tutti questi comandamenti vi sarà pure stata una specie di gerarchia, e fra i precetti “gravi” ve ne sarà stato uno gravissimo che superava per importanza tutti gli al­tri. Ciò appunto voleva sapere da Gesù questo Scriba. La risposta di Gesù fu quella già data al dottore della Legge per cui fu pronunziata la parabola del buon Samaritano: Gesù recitò l'inizio dello Shema' (§ 438). Il primo (comandamento) e': “Ascolta Israele! Il Signore Iddio nostro e' Signore unico; e amerai il Signore Iddio tuo con tutto il cuore tuo, e con tutta l'anima tua, e con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua”. (Il) secondo (comandamento e') questo:”Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Maggiore di que­sti, altro comandamento non e'. Veramente lo Scriba aveva interro­gato circa un solo comandamento, il massimo fra tutti; Gesù ha ri­sposto recitando il comandamento dell'amore di Dio, ma quasicché tale comandamento non sia da solo integro e pieno - almeno nel campo pratico - vi aggiunge l'altro dell'amore del prossimo: questi due precetti, che si riconnettono l'un l'altro, formano per Gesù il comandamento “massimo”. Le stesse idee erano già state espresse nel Discorso della montagna (§§ 327, 332). Lo Scriba approvò cor­dialmente la risposta di Gesù riscontrando da parte sua che il doppio amore di Dio e del prossimo valeva più che tutti gli olocausti e i sacrifizi del Tempio. In premio di questa sua replica Gesù gli disse: Non sei lontano dal regno d'Iddio. Gli mancava, in fatti, soltanto di credere nella missione di Gesù ad imitazione di Pietro, di Giovanni, e di tanti altri. Se ciò poi avvenisse, non sappiamo. Dopo questa discussione finita con l'accordo dei due ci si dice che nessuno piu' osava interrogarlo (Marco, 12, 34). Gesù però venne per conto suo alla riscossa. Avvicinatosi nel Tempio stesso a un altro gruppo di Farisei, intavolò una questione riguardo ai Messia: Da quale stirpe sarebbe disceso il Messia? Di chi sarebbe egli stato figlio? Gl'interrogati, d'accordo con tutta la tradizione ebraica, risposero: Di David. Gesù allora fece osservare che nella sacra Scrittura Da­vid stesso, il cui nome figura nell'iscrizione in cima al Salmo 110 ebr. (Vulg. 109), si esprime ivi cosi: Oracolo di Jahvè al mio Signore: “Siedi alla mia destra, finchè Io ponga i tuoi nemici (quale) sgabello per i tuoi piedi!”. Da questo passo Gesù argomentò: Se dunque David lo chiama “Si­gnore”, come e' figlio di lui? La forza dell'argomentazione poggiava su due punti ammessi anche dai Farisei: in primo luogo, che nel Salmo parlava David come mostrava la sua iscrizione; in secondo luogo, che il Salmo trattava del futuro Messia, come risulta dal largo impiego in questo senso che se ne fa nel Nuovo Testamento (più di quindici volte) e che presuppone il consenso della parte avversaria. Perché mai, dunque, David chiamava “Signore” il futuro Messia che era suo discendente? Ciò dimostrava, secondo Gesù, che il Mes­sia era più che un semplice “figlio di David” e racchiudeva in sé qualità che lo rendevano piu' che Giona e piu' che Salomone (§446) e anche più che David; ma Gesù voleva avere dai Farisei la spiega­zione di questa apparente incongruenza. Quei Farisei però non po­terono rispondere nulla. Più tardi, dal secolo II in poi, i rabbini risolsero la questione sostenendo che il Salmo non si riferiva al Messia, bensì ad un altro personaggio: che di solito era creduto Abramo, talvolta David stesso (!),e secondo la solitaria notizia di Giustino (Dial. cum Tryph., 33 e 38) il re Ezechia. Questa mutazione di riferimento fu evidentemente determinata dalla polemica anticristiana.
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