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mercoledì 12 settembre 2012

1796 - Vita di Gesù (paragrafi 512-514)

LA SETTIMANA DI PASSIONE. IL MARTEDÌ E IL MERCOLEDÌ

L'autorità di Gesù. Parabola dei due figli

§ 512. In quella mattina del martedì Gesù si recò al Tempio dove il popolo l'aspettava ansioso (§ 510) e si mise ad insegnare; ma ben presto si presentarono anche sommi sacerdoti, Scribi ed Anziani del popolo, cioè i rappresentanti dei vari gruppi del Sinedrio (§ 58), cosicché si ritrovarono riunite tutte insieme le forze in azione: Gesù da una parte, i maggiorenti giudei dall'altra, e in mezzo il popolo che proteggeva Gesù. Per allora c'era equilibrio tra le due forze contrastanti, ma quando l'ostacolo intermedio - ossia il favore popolare - fosse venuto a mancare, l'equilibrio sarebbe stato turbato e le due forze sarebbero venute in urto. E appunto a rimuovere l'ostacolo mirarono quella mattina i maggio­renti, i quali lì davanti alla folla domandarono a Gesù: Con quale autorità fai queste cose? O chi ti dette questa autorità perché (tu) faccia queste cose? (Marco, 11, 28). Il tono della domanda era da inquisizione tribunalesca, e quei maggiorenti trattavano Gesù come se già fosse stato deferito al loro tribunale; ma nello stesso tempo, con quella domanda, essi volevano screditarlo davanti al popolo e fargli perdere il favore di questo: probabilmente speravano che Gesù parlasse sprezzantemente di Mosè, della sua Legge o simili cose, ur­tando i sentimenti popolari. Gesù invece, accettando battaglia anche questa volta e precisamente sul terreno scelto dal nemico, seguì un metodo di discussione molto impiegato dai dottori della Legge, il quale consisteva nel rispondere facendo alla propria volta un'interro­gazione quasi per stabilire un punto ammesso da ambedue le parti. Gesu' però disse loro: “V'interrogherò in un solo punto; rispondetemi, e allora vi dirò con quale autorità (io) faccio queste cose: - Il battesimo di Giovanni era dal cielo o dagli uomini? - Rispondetemi!”. La domanda di Gesù era assai imbarazzante per i destinatari, specialmente lì davanti alla folla, a causa dell'atteggiamento che essi avevano tenuto di fronte a Giovanni il Battista (§ § 268, 292); il loro imbarazzo è descritto dall'evangelista con queste parole: E ragiona­vano in se stessi dicendo:”Se diciamo: - (Era) dal cielo - (egli ci) dirà: Perché dunque non credeste in lui? - E allora diremo - (Era) dagli uomini?”. (Ma non dissero ciò, perché) temevano la folla; tut­ti infatti ritenevano che Giovanni realmente era un profeta. E ri­spondendo a Geù dicono: “Non sappiamo”. E Gesù dice loro:”Neppure io vi dico con quale autorità faccio queste cose”. La bat­taglia era finita, certo non con la vittoria di chi aveva scelto il ter­reno. I Sinedristi avevano sperato far forza sul consenso popolare, per poi aver nelle loro mani Gesù abbandonato dalla folla; e invece la folla aveva protetto ancora una volta Gesù, il quale inoltre aveva nuovamente ricollegato la propria missione con quella di Giovanni il Battista. Nessuna meraviglia che i Sinedristi non accettassero la missione di Gesù, dal momento che avevano respinto quella del suo precursore. Per confermare la propria vittoria e schiarire sempre più il colle­gamento della propria missione con quella di Giovanni il Battista, Gesu' soggiunse una parabola. - Un uomo aveva due figli, che im­piegava nel coltivare la sua vigna. Un giorno egli disse al primo: Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna! - Quello rispose: Si, signore, vado. - E invece non andò affatto. Più tardi il padre dette lo stesso comando al secondo figlio, il quale rispose: Non voglio andare! - Tuttavia in seguito, pentendosi della sua risposta, andò. E Gesù concluse: Chi dei due fece la volontà del padre? Gli risposero: L'ul­timo. Gesù allora applicò la parabola al caso storico: in verità vi di­co che i pubblicani e le meretrici precedono voi nel regno d'iddio. Venne infatti a voi Giovanni in via di giustizia e non credeste in lui, mentre i pubblicani e le meretrici credettero in lui; voi al contrario, dopo aver veduto, neppure piti tardi vi pentiste si da credere in lui (Matteo, 21, 31-32). Dunque gl'inappuntabili Scribi e Farisei erano adombrati in quel figlio che a parole obbediva ma a fatti era ribelle; al contrario lo scarto della nazione eletta, cioè pubblicani e meretrici, avevano indubbiamente errato ma poi erano rinsaviti accettando la missione di Giovanni il Battista, e così avevano imitato il figlio dap­prima ribelle e poi obbediente. Tra i due figli, colui che dopo aver fatto il male “cambia di mente” e passa a fare il bene, è da preferirsi a colui che non si decide mai a fare il bene pur dichiarandosi sempre pronto a farlo.
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Parabola dei vignaioli omicidi
§ 513. La precedente parabola era stata una sentenza di riprovazione per coloro che allora si stimavano le guide e i più insigni rappresen­tanti della nazione eletta; ma Gesù ne soggiunse un'altra, egualmen­te di riprovazione, in cui volle riassumere l'intera storia d'Israele confrontata con l'economia prestabilita da Dio riguardo alla salvezza umana. L'insegnamento velato in questa nuova parabola era eguale a quello impartito da Gesù poche ore prima, con l'azione simbolica di maledire e far disseccare l'albero di fico; l'immagine che vien im­piegata nella parabola era già stata impiegata sette secoli prima e per lo stesso scopo dal profeta Isaia, cosicché Gesù ricollegava ancora una volta la sua propria missione con quella degli antichi profeti e nello stesso tempo rendeva facilissima l'interpretazione della sua para­boIa. Isaia (5, i segg.) nel suo celebre carme aveva descritto una vigna nel­la quale il padrone aveva riversato le più amorevoli cure, sceglien done il sito in un terreno ubertoso, ripulendolo da pietre, piantandovi maghuoli sceltissimi, costruendovi tutt'attorno un recinto di pre­tezione e al di dentro una torre di guardia col suo presso in basso; nonostante tutto ciò quella vigna si era ostinata a produrre acri lambrusche invece di dolci uve. La spiegazione soggiunta all'allego­ria aveva ricordato che l'ingrata vigna era la nazione d'Israele e il suo padrone era il Dio Jahvè Sebaoth; il quale però, esacerbato dalla sterilità della vigna, ne avrebbe abbattuto il recinto abbandonandola a devastazione e lasciandovi crescere rovi e spine. Questa immagine fondamentale, ripresa da Gesù, fu da lui ampliata e precisata con ciò ch'era avvenuto nei sette secoli trascorsi da Isaia fino a lui. C'era un uomo, padrone di casa, il quale piantò una vigna, e la cir­condò di siepe, e scavò in essa un pressoio e costruì una torre, e la cedette a vignaiuoli, e partì per l'estero. Quando poi s'avvicinò il tem­po dei frutti, inviò i suoi servi ai vignaiuoli a prendere i suoi frutti; e i vignaiuoli, presi i servi di lui, uno (ne) percossero, un altro (ne) uccisero e un altro (ne) lapidarono. Nuovamente inviò altri servi piu' numerosi dei primi, e (i vignaiuoli) fecero ad essi ugualmente. Alla fine inviò loro il figlio suo dicendo: “Avranno rispetto per il figlio mio!”. Ma i vignaiuoli, veduto il figlio, dissero fra loro:“Questo e' l'erede. Su dunque, uccidiamolo ed avremo la sua eredità! “. E presolo, (lo) scacciarono fuori della vigna ed uccisero. Quando dun­que venga il padrone della vigna, che cosa farà a quei vignaiuoli? - Gli dicono: (Essendo) cattivi, di cattiva fine li farà perire, e cederà la vigna ad altri vignaiuoli i quali gli consegneranno i frutti alle loro stagioni”. Dice loro Gesu':”Non leggeste mai. nelle Scritture - Una pietra che scartarono i costruttori” questa divenne testata d'angolo:dal Signore avvenne questa cosa” ed e mirabile agli occhi nostri - ? Salmo 118, 22-23 ebr. Per questo vi dico che sarà tolto a voi il regno d'Iddio e sarà data a nazione che faccia i frutti di esso” (Matteo, 21, 3343). Non era necessaria la perizia dei Farisei nelle sacre Scritture e la loro conoscenza della storia religiosa della propria nazione per compren­dere subito che la vigna era Israele, il padrone era Dio, e i servi malmenati o uccisi erano i profeti, le cui morti violente formavano un necrologio ininterrotto lungo le pagine delle Scritture. Ma a que­sta parte riguardante il passato Gesù aveva aggiunta, a guisa di con­clusione, una parte riguardante il futuro ed era quella ove aveva detto che lo stesso figlio, inviato per ultimo dal padrone della vigna, era stato percosso ed ucciso; evidentemente in questo figlio l'oratore aveva adombrato se stesso, e così si era proclamato implicitamente figlio di Dio ed aveva accusato in anticipo i colpevoli del loro futuro delitto. Tutto era di una chiarezza e precisione che non lasciava luo­go ad equivoci. Ed il risultato di questa perfetta comprensione fu in armonia con lo stato d'animo degli uditori: avendo udito i sommi sacerdoti e i Farisei le parabole di lui conobbero che di loro (egli) parla; e cercando d'impadronirsene ebbero paura delle folle, poiché (queste) lo ritenevano per profeta.
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Il tributo a Cesare
§ 514. Anche quella volta, dunque il favore popolare aveva funzio­nato da ostacolo protettivo di Gesù di fronte ai maggiorenti; costoro perciò, fremendo dal desiderio di concludere la lotta che si prolun­gava serrata da troppo tempo, decisero di aggirare quel fastidioso ostacolo compromettendo Gesù in maniera tale che il favore del po­polo non avrebbe potuto giovargli. Tenuto breve consiglio sul da farsi (Matteo, 22, 15), i Farisei inviaro­no a Gesù alcuni dei loro discepoli insieme con taluni Erodiani (§ 45) per proporgli, in pubblico e in maniera che la folla ascoltasse, una particolare questione. La presenza degli Erodiani già induceva a pre­vedere che si trattava di una questione politica, cioè di un argomen­to che Gesù aveva sempre evitato. Gl'inviati s'avvicinano pieni d'o­stentato rispetto, come se non avessero nulla in comune con i prece­denti interlocutori e venissero da tutt'altra parte, e untuosamente di­cono a Gesù: Maestro, sappiamo che sei veritiero ed insegni la via d'Iddio con verità e non tieni conto di nessuno, perché non guardi in faccia agli uomini; dicci dunque, che cosa ti sembra: e' lecito dare censo a Cesare o no? (Matteo, 22, 1~l7). La domanda, come già ha avvertito l'evangelista, era un tranello che consisteva in questo: se Gesù avesse risposto ch'era lecito, si sarebbe attirato l'odio del po­polo, perché colui che figurava come Messia ed eroe nazionale non avrebbe mai potuto dichiarar lecito il riconoscere un'autorità poli­tica straniera e il pagarle un tributo qualsiasi; se poi Gesù avesse risposto ch'era illecito, siffatta dichiarazione era bastevole per de­nunziarlo al procuratore romano come ribelle e istigatore di sommos­se, tanto più che la grande ribellione di Giuda il Galileo avvenuta un trentennio prima era stata provocata dal censimento romano intima­mente riconnesso col pagamento del tributo (§ 43). I Farisei, da per­sone esperte, trovarono che il dilemma era rigorosamente cornuto, e quindi che Gesù sarebbe rimasto vittima di una delle due alternative: probabilmente s'aspettavano ch'egli dichiarasse illecito il pagamento del censo, e in tal caso la denunzia subito presentata dai testimoni Erodiani avrebbe fatto colpo sul procuratore romano. Ma le previsioni fallirono, perché il dilemma fu rivolto contro gli interroganti. Disse infatti Gesù: Perché mi tentate, ipocnti? Mostra­temi la moneta del censo. Gli fu porto un denarius romano d'argen­to, che valeva poco più di una lira in oro odierna: serviva da mo­neta corrente per il pagamento delle imposte, ed era stato coniato fuori della Palestina perché era di metallo prezioso e recava impressa un'effigie umana, mentre le monete coniate in territorio giudaico era­no soltanto di bronzo e non recavano alcuna effigie umana in omag­gio alla nota prescrizione del giudaismo (§ 23). Se il denarius porto a Gesù era - come sembra assai probabile - quello di Tiberio allora regnante, esso recava sul retto l'immagine dell'imperatore coronato e attorno ad essa l'iscrizione TI.(berius) CAESAR DIVI AUO.(usti) f. (ilius) AUGUSTUS. Alquanto strana era parsa la richiesta di Gesù di vedere una moneta del censo quasi che non le avesse mai viste, ma anche più strana sembrò la sua domanda quandò ebbe la moneta sott'occhi: Di chi e' questa immagine e iscrizione? Ma come, non lo sapeva? Anche l'ul­timo ragazzo palestinese sapeva che effigie e nome erano di quell'im­peratore che stava laggiù a Roma a comandare sul mondo intero e - purtroppo - anche su Gerusalemme. Meravigliati di quella igno­ranza gli risposero: Di Cesare. Ma l'ignoranza era simile a quella già usata da Socrate nel suo metodo interrogativo, la quale mirava a far enunciare una data verità all'interrogato stesso. Con la risposta ottenuta, che effigie e nome erano di Cesare, Gesù aveva ottenuto quanto voleva; egli allora ne concluse: Rendete dunque le cose di Cesare a Cesare, e le cose d'iddio a iddio. La conclusione scaturiva, per una logica rigorosa, dalla risposta dei Farisei. Era di Cesare quel­la moneta? Ebbene, la rendessero a Cesare, giacché per il semplice fatto che essi accettavano quella moneta e se ne servivano correntemente mostravano di accettare la sovranità di chi l'aveva battuta. E così la questione politica era risolta senza che Gesù fosse entrato nell'evitato campo politico, ma solo in virtù della confessione che la moneta era di Cesare. Tuttavia, affermando il solo dovere verso Cesare, la questione non era totalmente risolta secondo Gesù. La sua missione tendeva al re­gno di Dio, non a quello dell'uno o dell'altro Cesare, e quando gli uomini avessero reso al rispettivo Cesare quel che gli spettava avreb­bero compiuto solo una parte, e non la più importante, del loro do­vere. Perciò alla prescrizione di rendere a Cesare, Gesù soggiunge l'altra di rendere a Dio, e l'aggiunse come elemento non solo integra­tivo di tutta la risposta ma anche rafforzativo della prima prescri­zione. Gesù infatti non conosce di persona nessuno dei Cesari di que­sto mondo, e non sa se essi si chiamino Augusto oppure Tiberio, Erode Antipa oppure Ponzio Pilato: sa soltanto che essi sono investiti di un'autorità la quale dev'essere rispettata. Ma perché questa sud­ditanza a Cesare? Appunto in virtù della sudditanza a Dio. I doveri verso Cesare formano solo un piano del gran quadro in cui Gesù contempla il regno di Dio: chi appartiene al regno di Dio compia, in forza di questa sua appartenenza, i suoi doveri verso il pro­prio Cesare; ma subito appresso, appena sdebitatosi verso Cesare, ri­salga egli nei piani superiori e spazieggi nei dominii imperituri del Padre celeste.
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