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domenica 6 febbraio 2011

874 - Vita di Gesù (paragrafi 40-42)

§ 40. Tutti gli altri Giudei, che non appartenevano alla ”colleganza” dei Farisei, erano chiamati da costoro il “popolo della ter­ra”. Il termine era dispregiativo, ma anche più di­spregiativo era il contegno tenuto dai Farisei verso questi loro con­nazionali. Anche qui le testimonianze, da parte tanto cristiana quanto giu­daica, sono concordi. In Giovanni, 7, 49, i Farisei esclamano: Que­sta folla, che non conosce la Legge, sono maledetti; ove la folla designa i non Farisei, cioè il “popolo della terra”, il quale non conosce la Legge ed è tutto di maledetti. I documenti giudaici, Poi, confermano questa maledizione. E’ sentenza appunto del grande Hiilel che nessun tanghero teme il peccato, e il popolo della terra non e' pio: ove tanghero è sinonimo di chi appartenga al popolo della terra. Quindi un vero Fariseo non doveva avere alcun contatto col “popolo della terra”, bensi mostrarsi fariseo cioè “separato” nei riguardi di esso. Per questa ragione un rabbino sentenziava: Partecipare ad un'assemblea del popolo della terra produce la morte (ivi, III, 10); il celebre Giuda il Santo si rammaricava: Ahime'! Ho dato del pane a uno del po­polo della terra! e Rabbi Eleazar prescriveva: E’lecito trafiggere uno del popolo della terra anche nel giorno del Kippur che cadesse di sabbato. In molti altri passi è proibito al Fariseo di vendere frutta a uno del “popolo della ter­ra”, di dargli ospitalità o riceverne, di contrarre parentela matri­moniale con lui, e simili (Demai, Il, 3; ecc.). E’ superfluo dire che, agli occhi dei Farisei, poteva essere “tanghero” e “popolo della terra” anche un Giudeo aristocratico e facoltoso, o un membro dell'alto sacerdozio: il criterio per giudicarlo era la pratica e la conoscenza della Legge secondo i principii farisei, e l'appartenenza alla eletta casta dei “separati”. Solo raramente a siffatto disprezzo di casta si rispondeva da parte degli estranei col disprezzo e con l'ostilità. Il popolino, specialmente nelle città e soprattutto le donne, stavano cordialmente per i Fa­risei tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote sono immediatamente cre­duti (Antichità giud., XIII, 288). Siffatta base democratica era la vera forza di cotesti aristocratici dottrinali.


§ 41. Resta da esaminare il preciso concetto di Scriba, e le sue relazioni con quello di Fariseo. I vangeli accomunano spessissimo Scribi e Farisei, e giustamente sotto l'aspetto della realtà contem­peranea; ma in teoria non tutti gli Scribi erano Farisei, come in pratica non ogni Fariseo era Scriba perché poteva non averne la scienza necessaria, ossia non essere un hakam (§ 39). Il concetto di Scriba era quello di essere per eccellenza l'uomo del­la Legge, astraendo dalla sua condizione sacerdotale o laica e dai suoi principii sadducei o farisei; ma in pratica, ai tempi di Gesù, solo pochissimi Scribi erano di condizione sacerdotale e di principii sadducei, mentre la stragrande maggioranza era costituita da laici di principii farisei. Di qui il pratico pareggiamento di Scribi e Fa­risei presso i vangeli. Quando nell'esilio di Babilonia il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge (Torah), già allora - prima cioè che esistessero le due correnti di Sadducei e Farisei - vi furono uomini che consacrarono tutta l'operosità e la vita loro all'unico bene superstite, alla Legge, onde conservarlo con ogni cura, trasmetterlo con tutta esattezza, investigarlo ed appli­carlo con la più scrupolosa indagine. Un uomo siffatto fu per ec­cellenza l'uomo del libro (sepher), non soltanto perché ne era il dligentissimo scriba, ma soprattutto perché ne era nel più ampio senso il maestro. Egli fu dun­que il legista e a lui fu riserbato il ti­tolo onorifico di Rab, Rabbi (« grande », mio grande »). Grandissima era l'autorità dello Scriba già verso il 200 av. Cr., come appare anche dal lirico encomio che ne fa il Siracida (Ecclesiastico, capp. 38-39); ma più tardi essa crebbe ancora, fino a diventare un vero trono di gloria contrapposto al trono del sacerdozio. Ai tempi di Gesù, infatti, il sacerdozio aveva bensi conservato il suo ufficio liturgico e il suo grado gerarchico nella costituzione teocratica del giudaismo, tuttavia esso aveva perduto quasi ogni efficacia sulla formazione spirituale delle masse il vero « padre spirituale » del popolo, il suo catechista, la sua guida morale, non era più il sa­cerdote ma lo Scriba. Man mano che il sacerdozio si era disinteressato della Legge, il laicato lo aveva sostituito nella direzione spi­rituale del giudaismo; mano mano che il sacerdozio si era imme­desimato con la corrente sadducea, il laicato legista era diventato sempre più fariseo: cosicché a un certo tempo l'azione del sacer­dozio rimase circoscritta alla liturgia del Tempio e ai maneggi della politica, mentre lo Scriba laico s'assise quale maestro nelle scuole della Legge, predicò quale rappresentante di Mosè nelle sinagoghe, s'aggirò quale modello di santità nelle vie e nelle case della vene­rabonda plebe. Scriba poteva divenire qualunque discendente d'Abramo, ma la via per toccare la mèta era lunga. Spesso si cominciava fin dalla puerizia a percorrerla, istruendosi - come fece S. Paolo (Atti, 22, 3) – “ai piedi” di qualche autorevole maestro (che insegnava seduto, mentre i discepoli si accoccolavano ai suoi piedi). Difficilmente un discepolo aveva percorso tutta la sua via ed era in grado a sua volta d'insegnare, prima che fosse in età di quaranta anni e in tutto questo tempo egli, quasi sempre povero, aveva esercitato un mestiere manuale per vivere (§ 167). Ma quando l'amore per la conoscenza della Legge era entrato nel cuore di uno di questi uo­mini, non si badava a privazioni d'ogni genere, a veglie diuturne, a tirocini laboriosi, a esercitazioni mnemoniche estenuanti, pur di possedere la Legge. Il possessore di questo tesoro era più ricco d'ogni ricchissimo, più glorioso d'un re e d'un sommo sacerdote, come già vedemmo a proposito dei Farisei (§ 35).

§ 42. Della corrente dei Farisei, secondo ogni verosimiglianza, sono derivazioni le correnti degli Zeloti e dei Sicari. Flavio Giuseppe, troppo incline a ravvicinare il mondo giudaico a quello greco-romano, presenta la corrente degli Zeloti come una quarta filosofia (Antichità giud., XVIII, 9), dopo le tre degli Esseni, Farisei e Sadducei; ma in realtà gli Zeloti, oltre a non rappresentare una filosofia, non formavano neppure una quarta corrente, perché erano sostanzialmente Farisei. Lo stesso Flavio Giuseppe afferma poco appresso che gli Zeloti in tutto il resto s'accordano con l'opi­nione dei Farisei, solo che hanno un ardentissimo amore per la li­bertà e ammettono come unico capo e signore Dio; non badano punto a subire le morti piu' straordinarie e punizioni di parenti e d'amici, pur di non riconoscere come signore alcun uomo (ivi, 23). E’ evidente in questo atteggiamento l'adesione al principio nazio­nale-teocratico, ch'era essenziale nel fariseismo: ma la divergenza avveniva nella pratica, perché i Farisei comuni non applicavano quel principio nel campo politico, mentre gli Zeloti ve l'applicavano con rigore fino alle ultime conseguenze. E perciò si chiamarono “Zeloti”, ossia zelanti applicatori della Legge nazionale-religiosa. Il termine era stato impiegato già da Mat­tatia, padre dei Maccabei, il quale in punto di morte aveva racco­mandato ai suoi figli: “E ora, figli, siate gli zelanti della Torah e date le vostre vite per l'alleanza dei nostri padri” (i Macc., 2, 50). Infatti i cinque figli del morente finirono tutti uccisi per la causa nazionale-religiosa; e proprio dalla vittoria di questa causa uscirono gli Asidei, dai quali discesero i Farisei (§ 29). Ora, gli Zeloti ri­presero in pieno il programma del padre dei Maccabei: vollero essere Farisei integralisti in ogni campo, anche in quello politico.
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