Il Signore ti benedica,ti custodisca e ti mostri il Suo volto misericordioso!

Quando pensi di aver toccato il fondo e che nessuno ti voglia o ti ami più, Dio si fa uomo per incontrarti, Gesù ti viene accanto

CIAO A TE !!

Nulla è più urgente nel mondo d'oggi di proclamare Cristo alle genti. Chiunque tu sia, puoi, se vuoi, lasciare un tuo contributo, piccolo o grande che sia, per dire, comunicare, annunciare la persona di Gesù Cristo, unico nostro salvatore. Uno speciale benvenuto a LADYBUG che si è aggiunta di recente ai sostenitori ! *************************************************** Questo blog è sotto la protezione di N.S. Gesù Cristo e della SS Vergine Maria, Sua Madre ed ha come unica ragione di esistere di fornire un contributo, sia pure piccolo ed umile, alla crescita della loro Gloria. ***************************************************



Con Cristo non ci sono problemi, senza Cristo non ci sono soluzioni.

mi trovate anche su questo blog
---------------------------------------------------------------



lunedì 31 gennaio 2011

868 - Vita di Gesù (paragrafi 31-35)

§ 31. Anzi, anche più obbligatoria. Troviamo infatti che con l'an­dar del tempo, man mano che i dottori della Legge o Scribi ela­boravano sistematicamente l'immenso materiale della tradizione, que­sto veniva ad assumere un'importanza pratica, se non teoretica, mag­giore della Torah scritta. Nel Talmud, che è in sostanza la tradizione codificata, sono contenute sentenze corne queste: Maggior forza hanno le parole degli Scribi che le parole della Torah; perciò anche è peggior cosa andar contro alle parole degli Scribi che alle parole della Torah (Sanhedrin, XI, 3); infatti le parole della Torah conten­gono cose proibite e cose permesse; precetti leggieri e precetti gravi: ma le parole degli Scribi sono tutte gravi (Berakoth pai., i, 3 b). E’ chiaro che, stabilito questo principio fondamentale, i Farisei erano in regola, e potevano legiferare quanto volevano estraendo ogni de­cisione dalla loro Legge orale. Ma appunto questo principio era re­spinto dai Sadducei, i quali non riconoscevano altro che la Legge scritta, la Torah, non accettando punto la Legge orale e la “tradi­zione” dei Farisei. Codeste cose - dicevano i Sadducei - erano tutte innovazioni, tutte deformazioni dell'antico e semplice spirito ebrai­co; essi, i Sadducei, erano i fedeli custodi di quello spirito, i veri “conservatori”, e perciò si opponevano agli arbitrari e interessati sofismi messi fuori da quei modernisti di Farisei. La risposta dei Sadducei era abile senza dubbio; tanto più che con quella parvenza di conservatorismo si evitavano legalmente i carichi pesanti (Matteo, 23, 4) imposti dai Farisei, e si lasciava una porta aperta per intendersi con l'ellenismo e la civiltà greco-romana. Perciò i Sadducei si appoggiarono sui ceti della nobiltà e di governo, che necessariamente dovevano mantenere relazioni con la civiltà straniera; i Farisei al contrario si appoggiarono sulla plebe, avversa a tutto ciò ch'era forestiero ed invece attaccatissima a quelle costu­manze tradizionali da cui i Farisei estraevano la loro Legge orale. Di qui anche il paradosso per cui i Sadducei erano giuridicamente conservatori ma praticamente lassisti; i Farisei invece apparivano come innovatori riguardo alla Torah scritta, mentre la loro inno­vazione voleva essere una salvaguardia e una protezione dell'an­tico.


§ 32. Le due correnti di Farisei e di Sadducei compaiono per la prima volta, già ben definite e in contrasto, al tempo del primo degli Asmonei, Giovanni Ircano (134-104 av. Cr.), ch'era anche figlio di Simone ultimo dei Maccabei: benché tale, egli era già in aperta ostilità con i Farisei. L'ostilità divenne furibonda sotto Alessandro Janneo (103-76 av. Cr.), e fra monarca e Farisei si ebbe una guerra di sei anni che fece cinquantamila vittime (Antichità giud., XIII, 376). Al contrario sotto il regno di Alessandra Salome (76-67 av. Cr.) i Farisei ebbero il loro periodo d'oro, poiché la regina lasciò fare ogni cosa ai Farisei, e comandò che anche il popolo obbedisse a loro...; ella quindi aveva il nome di regina, ma i Farisei avevano il potere (ivi, 408). Seguirono, naturalmente, le intemperanze della vittoria: gli sconfitti Sadducei, che avevano avuto fino allora la maggioranza nel consiglio del gran Sinedrio, vi rimasero per allora in minoranza esigua; gli antichi avversari dei Farisei o furono messi a morte o presero la via dell'esilio; si arrivò al punto che l'intero paese stava quieto, fatta eccezione dei Farisei (ivi, 410). Appunto da questo tem­po in poi il giudaismo fu sempre improntato dalle dottrine fari­saiche. Una certa reazione da parte dei Sadducei si ebbe sotto Aristobulo Il, per cui essi parteggiavano, mentre per il suo rivale fratello Ircano Il parteggiavano i Farisei: ma in seguito la massa del popolo divenne dominio quasi assoluto dei Farisei, i quali contavano taluni se­guaci anche fra i bassi ceti sacerdotali; cosicché, negli ultimi tempi prima del 70, i Sadducei restrinsero la loro autorità al Tempio ed alle grandi famiglie sacerdotali o facoltose accentrate attorno ad esso.

§ 33. Con la catastrofe dell'anno 70 i Sadducei scomparvero dalla storia, e naturalmente il giudaismo posteriore, dominato totalmente dai Farisei, conservò un pessimo ricordo dei Sadducei. Ecco come, sul finire del secolo I dopo Cr., si giudicavano i grandi casati sa­cerdotali che negli ultimi tempi prima della catastrofe erano stati più famosi: Guai a me dal casato di Boeto, guai a me dal loro scudiscio! Guai a me dal casato di Cantharos, guai a me dal loro calamo! Guai a me dal casato di Anna, guai a me dal loro sibilo! Guai a me dal casato d'Jsmael pglio di Fiabi, guai a me dal loro pugno! Sommi sacerdoti sono essi, tesorieri i loro figli; magistrati del Tempio i loro suoceri, i loro servi vengono con mazze a randellarci! E questo documento (Tosefta Menahoth, XIII, 21; non è solitario nei testi rabbinici: inoltre violenze e rapine compiute dall'alto sacerdozio a danno del clero inferiore sono ricordate anche da Flavio Giuseppe (Antichità giud., XX, 179-181).


§ 34. Quanto alle dottrine delle due correnti, ecco come si esprime il loro più antico storico, Flavio Giuseppe: (I Farisei) hanno fama d'interpretare con accuratezza le leggi e dirigono la setta principale; attribuiscono ogni cosa al Destino e a Dio, (ri­tenendo che) l'operare giustamente o no dipende in massima parte dall'uomo, ma il Destino coopera in ciascuna (azione); ogni anima e incorruttibile, ma soltanto quelle dei malvagi sono punite con un castigo eterno. I Sadducei invece, che sono il secondo gruppo, sopprimono assolutamente il Destino, e pongono Dio fuori (della possibilità) di fare alcunché di male o (anche solo) di scorgerlo; essi dicono che e' in potere dell'uomo la scelta del bene e del male, e che secondo la decisione di ciascuno avviene la sopravvivenza dell'anima, come pure la punizione e i premi giu' nell'Ade. I Farisei sono affezionati fra loro, e promuovono il buon accordo con la co­munità; i Sadducei invece sono piuttosto rudi per abitudine anche tra loro, e nelle relazioni con i (loro) simili sono scortesi come con gli stranieri. Si vedono chiaramente, in questi due sistemi di dottrine, le conseguenze del criterio principale che divideva i Sadducei dai Farisei. I primi accettavano la sola Legge scritta: e poiché in essa non tro­vavano chiaramente formulata una dottrina sulla resurrezione o sull'oltretomba, negavano questi punti; secondo Atti, 23, 8, essi non ammettevano neanche l'esistenza degli angeli e degli spiriti. Quanto al Destino che i Sadducei negavano secondo Flavio Giuseppe, è da vedersi piuttosto la Provvidenza o la Grazia divina. In sostanza, i Sadducei filosoficamente si rassomigliavano agli Epi­curei e teologicamente ai Pelagiani. Nel campo pratico la rudezza, attribuita loro dallo storico, doveva essere effetto della loro arro­ganza aristocratica; ma ci si dice pure che essi, nei giudizi forensi, erano rigorosissimi a differenza dei Farisei che inclinavano alla mitezza.

§ 35. I Farisei estraevano dalla “tradizione” le dottrine respinte dai Sadducei; e poiché lo studio della Legge, specialmente di quella orale, era il dovere più stretto e l'occupazione più nobile per ogni Giudeo, essi si dedicavano totalmente a questo studio. Fu detto, fra l'altro, che è maggiore lo studio della Torah che la costruzione del Tempio, anzi che è maggiore della venerazione per il padre e per la madre (ivi), e che l'uomo non deve ritrarsi dalla casa di studio (della Legge) e allontanarsi dalle parole della Torah neppure all'ora della morte; inoltre la To­rah e' maggiore del sacerdozio e della regalità, perché la regalità esige 30 requisiti, il sacerdozio 24, mentre la Torah si acquista con 48, e segue l'enumerazione dei 48 requisiti. Né è da credere che queste norme rimanessero lettera morta per­ché moltissimi sono gli esempi di Farisei che consacrarono tutta la loro vita allo studio della Legge trascurando ogni altra occupazione, salvo forse l'esercizio di un mestiere manuale per poche ore al gior­no, tanto per procurarsi da vivere. Cotesti studiosi della Legge erano consci della loro grandezza: la Legge infatti era l'armamentario da cui doveva estrarsi ogni norma per la vita pubblica e privata, religiosa e civile; quindi essi, custodi di quell'armamentario, erano dappiù del sacerdozio e della regalità. In una nazione ove la massa del popolo accettava pienamente l'idea teocratica, siffatto ragiona­mento era perfetto; e perciò i Farisei sentivano che la loro forza poggiava, non sulle classi aristocratiche o dell'alto sacerdozio o della corte, bensì' sulla massa del popolo.

-----------

domenica 30 gennaio 2011

867 - Vita di Gesù (paragrafi 28-30)

V - Sadducei, Farisei, Scribi e altri gruppi giudaici



§ 28. Ai tempi di Gesù i Saduducei e i Farisei formavano, dentro il popolo giudaico, i suoi due principali raggruppamenti. I quali però non erano delle “sette” nel senso rigoroso della parola, perché non erano staccati dalla compagine morale della nazione; neppure erano confraternite religiose come gli Esseni (§ 44), quantunque i loro prin­cipii fondamentali fossero religiosi; e nemmeno mostravano quale prima nota caratteristica un dato atteggiamento politico come gli Erodiani (§ 45), sebbene avessero grande importanza anche nel cam­po politico e sociale. Erano invece due correnti o tendenze che par­tivano ambedue da principii solenni nella nazione giudaica, pur es­sendo fra loro in assoluto contrasto. Esaminandole contemporaneamente, il loro stesso contrasto giova a definirle con precisione. Si crede di solito che i Farisei rappresentassero la corrente conser­vatrice, e i Sadducei quella liberale e innovatrice: ciò potrà esser vero nel campo pratico, ma in quello giuridico-religioso la designa­zione dovrebb'essere inversa, perché i Sadducei dal loro punto di vi­sta si presentavano quali conservatori del vero patrimonio morale dei giudaismo, e respingevano come innovazioni le dottrine particolari ai Farisei. Le due correnti, infatti, sorsero dal diverso atteggiamento che i vari ceti della nazione presero di fronte all'ellenismo, quando questo venne in urto col giudaismo, cioè dall'epoca dei Maccabei (16 av. Cr.) in poi.


§ 29. L'insurrezione dei Maccabei, diretta contro la politica elleniz­zatrice dei monarchi Seleucidi, fu sostenuta specialmente da quei po­polani di basso ceto, cordialmente avversi a istituzioni straniere, che si chiamarono gli Asidei “pii”; al contrario, in seno alla nazione stessa, si mostrarono favorevoli all'ellenismo parec­chi altri Giudei ch'erano rimasti abbarbagliati dallo splendore di quel­la civiltà straniera, ed appartenevano specialmente a classi sacerdotali e facoltose. Rimasta però vincitrice l'insurrezione nazionale-religiosa, gli aristocratici fautori dell'ellenismo entro la nazione giudaica scom­parvero o tacquero. Tuttavia poco dopo, stabilitasi la dinastia nazio­nale degli Asmonei discendenti dai Maccabei, le due correnti ricomparvero apertamente, sebbene con provenienza alquanto mutata; avvenne, cioè, che proprio quei sovrani Asmonei che dovevano il loro trono ai popolani Asidei, si mettessero in contrasto con questi, e si appoggiassero invece sulle classi sacerdotali ed aristocratiche. La ragione del mutamento è chiara. L'ellenismo premeva dall'esterno cosi gravemente sullo Stato giudaico ricostituito, che i governanti Asmonei non potevano praticamente evitare ogni relazione politica con esso, né impedire numerose infiltrazioni di quella civiltà pagana nei loro territori; senonché quelle relazioni e infiltrazioni parvero sconfitte politiche e soprattutto apostasie religiose agli Asidei, che perciò si alienarono man mano dai già favoriti Asmonei e divennero ad essi ostili. Passando all'opposizione, essi si chiamarono i “Separati”: in ebrai­co Peruhzm, in aramaico Perishajja, donde Farisei. I loro avversari, in maggioranza di stirpe sacerdotale, si chiamarono Sadducei, dal nome di Sadoq antico capostipite d'un insigne casato sacerdotale.

§ 30. Ma da chi, o da che cosa, i Farisei si consideravano “sepa­rati”? Il criterio della loro separazione era soprattutto nazionale-religioso, e solo conseguentemente civile e politico: essi si tenevano separati da tutto ciò che non era giudaico e che per tal ragione era anche irreligioso ed impuro, giacché giudaismo, religione e purità legale erano concetti che praticamente non si potevano staccare l'uno dall'altro. Ma qui sorgeva il contrasto, anche dottrinale, con i Sadducei: qual era la vera norma fondamentale del giudaismo? quale il supremo e inappellabile statuto che doveva governare la nazione eletta? A questa domanda i Sadducei rispondevano che era la Torah, cioè la “Legge” per eccellenza, la “Legge scritta” consegnata da Mosè alla nazione come statuto fondamentale e unico. I Farisei invece rispondevano che la Torah, la “Legge scritta”, era soltanto una parte, e neppure la principale, dello statuto nazionale-religioso: in­sieme con essa, e più ampia di essa, esisteva la “Legge orale”, co­stituita dagl'innumerevoli precetti della “tradizione”. Questa Legge orale era costituita da un materiale immenso: essa comprendeva, oltre ad elementi narrativi e di altro genere, anche tutto un elaborato sistema di precetti pratici, che si estendeva alle più svariate azioni della vita civile e religiosa, e andava perciò dalle complicate norme per i sacrifizi del culto fino alla lavanda delle stoviglie prima dei pasti, dalla minuziosa procedura dei pubblici tribunali fino a decidere se era lecito o no mangiare un frutto caduto spontaneamente dall'albero durante il riposo del sab­bato. Tutta questa congerie di credenze e di costumanze tradizio­nali non aveva quasi mai un vero collegamento con la Torah scritta; ma i Farisei scoprivano spesso siffatto collegamento sottoponendo a un'esegesi arbitraria il testo della Torah: e anche quando non ri­correvano a tale metodo, si richiamavano al loro principio fondamentale che Dio aveva dato a Mosè sul Sinai la Torah scritta con­tenente solo 613 precetti, e inoltre la Legge orale molto più ampia ma non meno obbligatoria.

--------

venerdì 28 gennaio 2011

866 - Omelia del 30/1/2011 4^ domenica t.ord.

Con questa domenica, iniziamo il discorso della montagna di Gesù.
E' la pietra miliare dell'esperienza cristiana.
Gesù sale sul monte come Mosè e, da nuovo legislatore, pronuncia il primo dei suoi cinque discorsi, mettendosi seduto come un maestro di fronte ai suoi allievi.
Il discorso della montagna è rivolto in primo luogo ai suoi discepoli ma, in ultima istanza, è offerto ad ogni uomo che accoglie la persona di Gesù e vede messi in pratica i suoi insegnamenti nella comunità cristiana.
Le beatitudini, prima che essere uno sforzo dell'uomo, rappresentano la consapevolezza che il dono della salvezza viene da Dio, per cui è Lui che ci fa mettere in pratica le beatitudini.
Noi allora nelle beatitudini non facciamo altro che cercare di rispondere all'amore grande che Dio nutre nei nostri confronti.
Ogni beatitudine ha tre elementi.
La proclamazione della beatitudine, il "beati voi", poi le persone a cui è riferita tale beatitudine ed infine ciò che adesso vale per loro o li attenderà in futuro.
Quindi la seconda parte è importante.
Proprio perché Dio agisce così, noi possiamo considerarci beati.
Le prime quattro beatitudini riguardano il rapporto dell'uomo con Dio e la prima in particolare è quella che, forse. conosciamo meglio.
Sono beati i poveri in spirito, perché il regno dei cieli è loro.
Non è solo esaltare la povertà, ma vederla come consapevolezza di aver bisogno di qualcuno, di dipendere dall'aiuto degli altri per poter vivere.
Altrimenti vivremmo nell'autosufficienza.
E' chiaro che una povertà materiale aiuta ed è sotto gli occhi di tutti che, laddove la ricchezza è elevata, il rapporto con Dio è progressivamente minore, perché ci si ritiene autosufficienti.
Quando un giovane ha tutto e non gli manca niente, il rapporto con gli altri e con Dio lo mette in secondo piano.
Il grande problema di oggi è vivere come se Dio non esistesse.
La seconda beatitudine riguarda non tanto coloro che sono nel pianto, quanto la traduzione più corretta sarebbe "coloro che si affliggono", ossia si addolorano per le disgrazie altrui.
Sono persone solidali con chi soffre, diventando vulnerabili e deboli.
L'opposto delle beatitudini è vivere blindati, a riccio, impermeabili, ricercando solo il proprio benessere e la ricerca smisurata di se.
Una delle ultime beatitudini che riguardano il rapporto con gli altri, dice di essere beati come operatori di pace che sono i veri figli di Dio.
La pace è un dono di Dio e va ricercata nell'esperienza della fraternità in cui l'altro non è un nemico, ma una persona da amare e perdonare.
Chi si adopera in questo modo è figlio di Dio, cioè ha impresso il volto del Padre.
Infine l'ultima beatitudine parla di Chiesa povera e perseguitata, ed è l'esperienza della Chiesa di sempre. Una Chiesa che non scomoda non riuscirà mai a incidere, perché accetta solo la realtà, ma non porta il valore "in più" del Vangelo.
Essere un cristiano secondo lo spirito delle beatitudini significa da un lato accogliere il dono di Dio e dall'altra sentirsi libero di donare agli altri il frutto di tale amore.
Il cristiano è colui che sa pregare e agire nello stesso tempo, perché si sente salvato dalla grazia amorevole di Dio e la manifesta nella povertà della propria vita.
La stessa felicità che è sottintesa al termine beati, ci fa comprendere che proprio nel continuo incontro con Dio possiamo cambiare il registro della nostra vita a partire da adesso.
Il cristiano vede con occhi nuovi la propria esistenza, ed è proprio nelle situazioni più difficili che sa cogliere la presenza più forte di un Dio che ricolma di beni gli affamati, ma rimanda i ricchi a mani vuote.
------------

865 - Vangelo del 30/1/2011 Domenica 4^ tempo ord.

Beati i poveri in spirito

+ Dal Vangelo secondo Matteo (5,1-12a)
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
--------

giovedì 27 gennaio 2011

864 - Ritornate a me con digiuni!

Gioele 2, 12-13.
«Or dunque - parola del Signore - ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti». Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perchè egli è misericordioso e benigno, tardo all'ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura».


Isaia 58, 6-7.
«Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?».
--------

863 - Ti basta la mia grazia!

2Cor 12, 7-9
"Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto:<< Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza>>."



Sir 2, 4-6
"Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché con il fuoco si prova l'oro, e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore. Affidati a lui ed egli ti aiuterà; segui la via diritta e spera in lui."


"Dio non ci manda mai prove senza darci insieme la forza necessaria per sopportarle." (Edith Stein, Santa Teresa Benedetta della Croce)

"Non c'è nessuno a cui la vita sorrida sempre, ma può accadere che, ad un certo punto, si DECIDA di sorridere alla vita, comunque, dovunque e con chiunque essa scorra." (Autore anonimo)
---

mercoledì 26 gennaio 2011

862 - Udienza del 26/1/2011 (S.Giovanna d'Arco)

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlarvi di Giovanna d'Arco, una giovane santa della fine del Medioevo, morta a 19 anni, nel 1431.
Questa santa francese, citata più volte nel Catechismo della Chiesa Cattolica, è particolarmente vicina a santa Caterina da Siena, patrona d'Italia e d'Europa, di cui ho parlato in una recente catechesi. Sono infatti due giovani donne del popolo, laiche e consacrate nella verginità; due mistiche impegnate, non nel chiostro, ma in mezzo alle realtà più drammatiche della Chiesa e del mondo del loro tempo. Sono forse le figure più caratteristiche di quelle “donne forti” che, alla fine del Medioevo, portarono senza paura la grande luce del Vangelo nelle complesse vicende della storia. Potremmo accostarle alle sante donne che rimasero sul Calvario, vicino a Gesù crocifisso e a Maria sua Madre, mentre gli Apostoli erano fuggiti e lo stesso Pietro lo aveva rinnegato tre volte.
La Chiesa, in quel periodo, viveva la profonda crisi del grande scisma d'Occidente, durato quasi 40 anni.
Quando Caterina da Siena muore, nel 1380, ci sono un Papa e un Antipapa; quando Giovanna nasce, nel 1412, ci sono un Papa e due Antipapa. Insieme a questa lacerazione all'interno della Chiesa, vi erano continue guerre fratricide tra i popoli cristiani d'Europa, la più drammatica delle quali fu l'interminabile “Guerra dei cent’anni” tra Francia e Inghilterra.
Giovanna d'Arco non sapeva né leggere né scrivere, ma può essere conosciuta nel più profondo della sua anima grazie a due fonti di eccezionale valore storico: i due Processi che la riguardano. Il primo, il Processo di Condanna (PCon), contiene la trascrizione dei lunghi e numerosi interrogatori di Giovanna durante gli ultimi mesi della sua vita (febbraio-maggio 1431), e riporta le parole stesse della Santa. Il secondo, il Processo di Nullità della Condanna, o di “riabilitazione” (PNul), contiene le deposizioni di circa 120 testimoni oculari di tutti i periodi della sua vita (cfr Procès de Condamnation de Jeanne d'Arc, 3 vol. e Procès en Nullité de la Condamnation de Jeanne d'Arc, 5 vol., ed. Klincksieck, Paris l960-1989).
Giovanna nasce a Domremy, un piccolo villaggio situato alla frontiera tra Francia e Lorena. I suoi genitori sono dei contadini agiati, conosciuti da tutti come ottimi cristiani. Da loro riceve una buona educazione religiosa, con un notevole influsso della spiritualità del Nome di Gesù, insegnata da san Bernardino da Siena e diffusa in Europa dai francescani. Al Nome di Gesù viene sempre unito il Nome di Maria e così, sullo sfondo della religiosità popolare, la spiritualità di Giovanna è profondamente cristocentrica e mariana. Fin dall'infanzia, ella dimostra una grande carità e compassione verso i più poveri, gli ammalati e tutti i sofferenti, nel contesto drammatico della guerra.
Dalle sue stesse parole, sappiamo che la vita religiosa di Giovanna matura come esperienza mistica a partire dall'età di 13 anni (PCon, I, p. 47-48). Attraverso la “voce” dell'arcangelo san Michele, Giovanna si sente chiamata dal Signore ad intensificare la sua vita cristiana e anche ad impegnarsi in prima persona per la liberazione del suo popolo. La sua immediata risposta, il suo “sì”, è il voto di verginità, con un nuovo impegno nella vita sacramentale e nella preghiera: partecipazione quotidiana alla Messa, Confessione e Comunione frequenti, lunghi momenti di preghiera silenziosa davanti al Crocifisso o all'immagine della Madonna. La compassione e l’impegno della giovane contadina francese di fronte alla sofferenza del suo popolo sono resi più intensi dal suo rapporto mistico con Dio.
Uno degli aspetti più originali della santità di questa giovane è proprio questo legame tra esperienza mistica e missione politica. Dopo gli anni di vita nascosta e di maturazione interiore segue il biennio breve, ma intenso, della sua vita pubblica: un anno di azione e un anno di passione.
All'inizio dell'anno 1429, Giovanna inizia la sua opera di liberazione. Le numerose testimonianze ci mostrano questa giovane donna di soli 17 anni come una persona molto forte e decisa, capace di convincere uomini insicuri e scoraggiati. Superando tutti gli ostacoli, incontra il Delfino di Francia, il futuro Re Carlo VII, che a Poitiers la sottopone a un esame da parte di alcuni teologi dell'Università. Il loro giudizio è positivo: in lei non vedono niente di male, solo una buona cristiana.
Il 22 marzo 1429, Giovanna detta un'importante lettera al Re d'Inghilterra e ai suoi uomini che assediano la città di Orléans (Ibid., p. 221-222). La sua è una proposta di vera pace nella giustizia tra i due popoli cristiani, alla luce dei nomi di Gesù e di Maria, ma è respinta, e Giovanna deve impegnarsi nella lotta per la liberazione della città, che avviene l'8 maggio. L'altro momento culminante della sua azione politica è l’incoronazione del Re Carlo VII a Reims, il 17 luglio 1429.
Per un anno intero, Giovanna vive con i soldati, compiendo in mezzo a loro una vera missione di evangelizzazione. Numerose sono le loro testimonianze riguardo alla sua bontà, al suo coraggio e alla sua straordinaria purezza.
E' chiamata da tutti ed ella stessa si definisce “la pulzella”, cioè la vergine.
La passione di Giovanna inizia il 23 maggio 1430, quando cade prigioniera nelle mani dei suoi nemici. Il 23 dicembre viene condotta nella città di Rouen. Lì si svolge il lungo e drammatico Processo di Condanna, che inizia nel febbraio 1431 e finisce il 30 maggio con il rogo. E' un grande e solenne processo, presieduto da due giudici ecclesiastici, il vescovo Pierre Cauchon e l'inquisitore Jean le Maistre, ma in realtà interamente guidato da un folto gruppo di teologi della celebre Università di Parigi, che partecipano al processo come assessori. Sono ecclesiastici francesi, che avendo fatto la scelta politica opposta a quella di Giovanna, hanno a priori un giudizio negativo sulla sua persona e sulla sua missione. Questo processo è una pagina sconvolgente della storia della santità e anche una pagina illuminante sul mistero della Chiesa, che, secondo le parole del Concilio Vaticano II, è “allo stesso tempo santa e sempre bisognosa di purificazione” (LG, 8). E’ l'incontro drammatico tra questa Santa e i suoi giudici, che sono ecclesiastici. Da costoro Giovanna viene accusata e giudicata, fino ad essere condannata come eretica e mandata alla morte terribile del rogo.
A differenza dei santi teologi che avevano illuminato l'Università di Parigi, come san Bonaventura, san Tommaso d'Aquino e il beato Duns Scoto, dei quali ho parlato in alcune catechesi, questi giudici sono teologi ai quali mancano la carità e l'umiltà di vedere in questa giovane l’azione di Dio. Vengono alla mente le parole di Gesù secondo le quali i misteri di Dio sono rivelati a chi ha il cuore dei piccoli, mentre rimangono nascosti ai dotti e sapienti che non hanno l'umiltà (cfr Lc 10,21). Così, i giudici di Giovanna sono radicalmente incapaci di comprenderla, di vedere la bellezza della sua anima: non sapevano di condannare una Santa.
L'appello di Giovanna al giudizio del Papa, il 24 maggio, è respinto dal tribunale. La mattina del 30 maggio, riceve per l'ultima volta la santa Comunione in carcere, e viene subito condotta al supplizio nella piazza del vecchio mercato. Chiede a uno dei sacerdoti di tenere davanti al rogo una croce di processione.
Così muore guardando Gesù Crocifisso e pronunciando più volte e ad alta voce il Nome di Gesù (PNul, I, p. 457; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 435).
Circa 25 anni più tardi, il Processo di Nullità, aperto sotto l'autorità del Papa Callisto III, si conclude con una solenne sentenza che dichiara nulla la condanna (7 luglio 1456; PNul, II, p 604-610).
Questo lungo processo, che raccolse le deposizioni dei testimoni e i giudizi di molti teologi, tutti favorevoli a Giovanna, mette in luce la sua innocenza e la perfetta fedeltà alla Chiesa.

Benedetto XV
 Giovanna d’Arco sarà poi canonizzata da Benedetto XV, nel 1920.
Cari fratelli e sorelle, il Nome di Gesù, invocato dalla nostra Santa fin negli ultimi istanti della sua vita terrena, era come il continuo respiro della sua anima, come il battito del suo cuore, il centro di tutta la sua vita. Il “Mistero della carità di Giovanna d'Arco”, che aveva tanto affascinato il poeta Charles Péguy, è questo totale amore di Gesù, e del prossimo in Gesù e per Gesù. Questa Santa aveva compreso che l’Amore abbraccia tutta la realtà di Dio e dell'uomo, del cielo e della terra, della Chiesa e del mondo. Gesù è sempre al primo posto nella sua vita, secondo la sua bella espressione: “Nostro Signore servito per primo” (PCon, I, p. 288; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 223). Amarlo significa obbedire sempre alla sua volontà. Ella afferma con totale fiducia e abbandono: "Mi affido a Dio mio Creatore, lo amo con tutto il mio cuore" (ibid., p. 337).
Con il voto di verginità, Giovanna consacra in modo esclusivo tutta la sua persona all'unico Amore di Gesù: è “la sua promessa fatta a Nostro Signore di custodire bene la sua verginità di corpo e di anima” (ibid., p. 149-150). La verginità dell'anima è lo stato di grazia, valore supremo, per lei più prezioso della vita: è un dono di Dio che va ricevuto e custodito con umiltà e fiducia. Uno dei testi più conosciuti del primo Processo riguarda proprio questo: “Interrogata se sappia d'essere nella grazia di Dio, risponde: Se non vi sono, Dio mi voglia mettere; se vi sono, Dio mi voglia custodire in essa” (ibid., p. 62; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2005).
La nostra Santa vive la preghiera nella forma di un dialogo continuo con il Signore, che illumina anche il suo dialogo con i giudici e le dà pace e sicurezza. Ella chiede con fiducia: “Dolcissimo Dio, in onore della vostra santa Passione, vi chiedo, se voi mi amate, di rivelarmi come devo rispondere a questi uomini di Chiesa” (ibid., p. 252). Gesù è contemplato da Giovanna come il “Re del Cielo e della Terra”. Così, sul suo stendardo, Giovanna fece dipingere l'immagine di “Nostro Signore che tiene il mondo” (ibid., p. 172): icona della sua missione politica. La liberazione del suo popolo è un’opera di giustizia umana, che Giovanna compie nella carità, per amore di Gesù.
Il suo è un bell’esempio di santità per i laici impegnati nella vita politica, soprattutto nelle situazioni più difficili. La fede è la luce che guida ogni scelta, come testimonierà, un secolo più tardi, un altro grande santo, l’inglese Thomas More.
In Gesù, Giovanna contempla anche tutta la realtà della Chiesa, la “Chiesa trionfante” del Cielo, come la “Chiesa militante” della terra. Secondo le sue parole, ”è un tutt'uno Nostro Signore e la Chiesa” (ibid., p. 166). Quest’affermazione, citata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 795), ha un carattere veramente eroico nel contesto del Processo di Condanna, di fronte ai suoi giudici, uomini di Chiesa, che la perseguitarono e la condannarono. Nell'Amore di Gesù, Giovanna trova la forza di amare la Chiesa fino alla fine, anche nel momento della condanna.
Mi piace ricordare come santa Giovanna d’Arco abbia avuto un profondo influsso su una giovane Santa dell'epoca moderna: Teresa di Gesù Bambino. In una vita completamente diversa, trascorsa nella clausura, la carmelitana di Lisieux si sentiva molto vicina a Giovanna, vivendo nel cuore della Chiesa e partecipando alle sofferenze di Cristo per la salvezza del mondo. La Chiesa le ha riunite come Patrone della Francia, dopo la Vergine Maria. Santa Teresa aveva espresso il suo desiderio di morire come Giovanna, pronunciando il Nome di Gesù (Manoscritto B, 3r), ed era animata dallo stesso grande amore verso Gesù e il prossimo, vissuto nella verginità consacrata.
Cari fratelli e sorelle, con la sua luminosa testimonianza, santa Giovanna d’Arco ci invita ad una misura alta della vita cristiana: fare della preghiera il filo conduttore delle nostre giornate; avere piena fiducia nel compiere la volontà di Dio, qualunque essa sia; vivere la carità senza favoritismi, senza limiti e attingendo, come lei, nell'Amore di Gesù un profondo amore per la Chiesa. Grazie.
---------

martedì 25 gennaio 2011

861 - Messaggio di Medjugorje 25/1/2011

Cari figli! Anche oggi sono con voi e vi guardo, vi benedico e non perdo la speranza che questo mondo cambierà in bene e che la pace regnerà nei cuori degli uomini.
La gioia regnerà nel mondo perché vi siete aperti alla mia chiamata e all’amore di Dio.
Lo Spirito Santo cambia la moltitudine di coloro che hanno detto sì.
Perciò desidero dirvi: grazie per aver risposto alla mia chiamata.
---

sabato 22 gennaio 2011

860 - Vita di Gesù (paragrafi 25-27)

§ 25. Di Pilato parlano, oltre ai vangeli, anche Filone (Legat. ad Caium, 38) e Flavio Giuseppe, e da tutte e tre le fonti il minimo che risulti è che Pilato era uno scontroso e un ostinato; ma il re Erode Agrippa I, che ne sapeva parecchie cose per esperienza per­sonale, lo dipinge anche come venale, violento, rapinatore, anga­riatore e tirannico nel suo governo (in Filone, ivi). Forse queste ac­cuse addotte dal re giudeo sono esagerate; ad ogni modo è certo che Pilato, come procuratore, dette cattiva prova nell'interesse stes­so di Roma. Per i suoi governati egli ebbe un cordiale disprezzo, non fece nulla per guadagnarsene l'animo, cercando piuttosto ogni occasione per stuzzicarli ed offenderli, e non soltanto li odiava, ma sentiva anche un prepotente bisogno di mostrare loro questo suo odio. Se fosse dipeso da lui, li avrebbe mandati volentieri tutti a la­vorare negli ergastula e ad metalla; ma c'era di mezzo l'imperatore di Roma, e anche il legato di Siria che sorvegliava e riferiva all'im­peratore, e perciò il cavaliere Ponzio Pilato doveva frenarsi e im­porre dei limiti agli sfoghi del suo astio. Tuttavia anche questo ti­more servile ebbe il suo contrapposto; infatti già nel 19 dopo Cr. Tiberio, avendo scacciato i Giudei da Roma, sembrava essere en­trato in un periodo d'ostilità contro il giudaismo in genere, e pro­prio durante questo periodo Pilato era stato inviato a governare la Giudea: egli quindi, specialmente nei primi anni, poté stimare che la sua avversione contro i propri governati ricopiasse con opportuna cortigianeria gli esempi che venivano dall'Italia.


§ 26. Probabilmente fin dal principio del suo procuratorato, egli, accoppiando i due sentimenti di cortigianeria verso l'imperatore e di disprezzo verso i Giudei, dette ordine ai soldati che da Cesarea salivano a presidiare Gerusalemme di entrarvi portando con sé, per la prima volta, i vessilli con l'effigie dell'imperatore; tuttavia, astu­tamente, fece introdurre i vessilli di notte, per non suscitare resi­stenze e per metter la città davanti al fatto compiuto. Il giorno appresso, costernati da tanta profanazione, molti Giudei corsero a Cesarea e per cinque giorni e cinque notti di seguito rimasero a supplicare il procuratore di rimuovere i vessilli dalla città santa. Pilato non cedette; anzi al sesto giorno, seccato dall'insistenza, li fece circondare in pubblica udienza dalle sue truppe, minacciando di ucciderli se non tornavano subito alle loro case. Ma qui, quei ma­gnifici tradizionalisti, vinsero il cinico romano; quando si videro circondati dai soldati, essi si prostesero a terra, si denudarono il collo, e si dichiararono pronti a farsi scannare piuttosto che rinunciare ai propri principii. Pilato, che non si aspettava tanto, cedette e fece ri­muovere i vessilli. Più tardi ci fu la questione dell'acquedotto. Per portar acqua a Ge­rusalemme, che ne aveva molto bisogno anche per i servizi del Tem­pio, Pilato decise la costruzione di un acquedotto che convogliasse le acque delle ampie riserve situate a sud-est di Beth-lehem (le cosiddette “vasche di Salomone” odierne), e a pagare tale lavoro destinò alcuni fondi del tesoro del Tempio. Questo impiego del de­naro sacro provocò dimostrazioni e tumulti da parte dei Giudei. Pilato allora fece sparpagliare fra i tumultuanti molti suoi soldati tra­vestiti da Giudei; al momento stabilito i travestiti estrassero i ran­delli che tenevano nascosti e si dettero a malmenare la folla, la­sciando sul terreno parecchi morti e feriti. In seguito il litigioso procuratore ripeté un tentativo analogo a quello dei vessilli militari, facendo appendere al palazzo di Erode in Geru­salemme certi scudi dorati recanti il nome dell'imperatore. Si è pen­sato che questo nuovo tentativo - di cui abbiamo notizia solo da Filone - possa essere uno sdoppiamento del precedente fatto dei vessilli: ma il dubbio non sembra fondato, sia per il carattere punti­glioso di Pilato, sia perché questo nuovo tentativo dovette avvenire molto più tardi dell'altro. Questa volta una delegazione inviata a Pilato, di cui facevano parte anche quattro figli di Erode il Grande, non ottenne la desiderata rimozione degli scudi; allora i Giudei si rivolsero a Tiberio stesso, e l'imperatore spedi l'ordine di trasportare i contrastati scudi nel tempio d'Augusto a Cesarea. Questa arrendevolezza di Tiberio induce a credere che il fatto sia accaduto dopo la morte di Seiano (31 dopo Cr.), ch'era stato onnipotente ministro di Tiberio e gran nemico dei Giudei. Del tutto occasionale è la notizia di fonte evangelica (Luca, 13, 1) secondo cui Pilato fece uccidere certi Galilei - che perciò erano sud­diti di Erode Antipa - mentre offrivano sacrifizi nel Tempio di Ge­rusalemme; ma non abbiamo particolari su questo fatto Possiamo invece sospettare che l'ostilità fra Pilato e Antipa, attestata dalla fonte evangelica (Luca, 23, 12), avesse come parziale motivo questa strage di sudditi di Antipa; ma un altro motivo fu, probabilmente, la parte di spia che Antipa faceva presso Tiberio a carico dei ma­gistrati romani (§ 15).

§ 27. Alla fine Pilato fù vittima del suo modo di governare. Nel 35 un falso profeta, che aveva acquistato gran nome in Samaria, promise ai suoi seguaci di mostrare gli arredi sacri dei tempi di Mosè che si credevano nascosti nel monte Garizim, vicino a Samaria. Ma, il giorno fissato, Pilato fece occupare dai soldati la sommità del mon­te: egli infatti voleva impedire l'assembramento, non tanto perché desse importanza alla vana promessa del falso profeta, quanto per­ché sapeva che i Samaritani erano stanchi delle oppressioni del procuratore e sospettava in essi propositi di rivolta. Formatosi ugual­mente un numeroso assembramento, i soldati lo assalirono: molti Samaritani rimasero uccisi, molti furono fatti prigionieri, e i più insigni di costoro furono poi messi a morte da Pilato. Di questa irragionevole strage la comunità dei Samaritani presentò formale ac­cusa contro Pilato presso Vitellio, ch'era legato di Siria e munito di pieni poteri in Oriente; l'accusa fu accolta con premura, perché i Samaritani erano noti per la loro fedeltà a Roma, e Vitellio senz'altro destituì Pilato e l'inviò a Roma a rispondere del suo operato davanti all'imperatore. Era lo scorcio dell'anno 36. Quando Pilato giunse a Roma, trovò che Tiberio era morto (16 mar­zo del 37). In che maniera finisse il condannatore di Gesù, non è noto alla vera storia: è invece noto alla leggenda, che gli attribui mirabili avventure in questo e nell'altro mondo, e lo destinò tal­volta al fondo dell'inferno e talvolta invece al paradiso come vero santo.
---

venerdì 21 gennaio 2011

859 - Omelia del 23/1/2011 3^ domenica t.ord.

Siamo nella settimana di preghiera per l'unità dei cristiani.

E' un tema molto delicato, che ci sta particolarmente a cuore, anche se rischia di essere visto solo per gli addetti ai lavori.
Le Chiese soffrono per la loro divisione e allora bisogna mettere al centro ciò che ci unisce, più che ciò che ci divide.
Prima di giudicare, è necessario metterci nei panni degli altri, ossia delle persone con cui siamo chiamati a dialogare.
La divisione diventa un motivo per recuperare cosa significhi essere cristiani oggi e approfondire maggiormente la propria fede.
Solo se sapremo vedere splendere la perla che è la nostra confessione cristiana cattolica, saremo in grado di apprezzare i tanti doni che Dio offre alla Chiesa protestante e alla Chiesa ortodossa.


Gesù comincia la sua predicazione a partire da quella regione, la Galilea, che è culla di varie culture, di diverse realtà religiose.
Una zona non protetta, non pura.
Con l'arresto di Giovanni, Gesù inizia la sua missione, la sua attività pubblica.
Parte da un luogo difficile.
Però anche la profezia viene incontro a Gesù, perchè anche Isaia cita questo posto come luogo di annuncio.
Tale annuncio si fonda su un appello alla conversione, perchè il Regno dei cieli è vicino.
Quel Dio che si fa compagno di strada dell'uomo, è però sempre visto nella sua alterità e questo è il richiamo al regno dei cieli.
Poi assistiamo alla chiamata dei primi quattro apostoli, che sono pescatori.
E' la Parola di Gesù che strappa quei pescatori dal loro ambiente, dalla loro professione e li rende pescatori non più di pesci, ma di uomini.
Gesù cambia connotazione al loro esistere.
La vocazione nasce in un contesto di autentica relazione nella ferialità della propria esistenza.
Tale sequela comporta che il discepolo si assimila al maestro, ossia cerca di vivere la vita stessa del maestro, nella solidarietà alla sua missione.
Per questo lasciano tutto per seguire il Cristo: operano una scelta radicale.
Nell'ultimo versetto troviamo Gesù che percorre la Galilea annunciando il Vangelo, ma soprattutto guarendo ogni malattia.
Perchè il Regno di Dio non è solo un fatto teorico, ma si concretizza in relazioni nuove e nel sostegno verso chi ha realmente bisogno.
Gesù parla e affascina le persone.
Invita a vivere nella santità.
Alcuni decidono di dare la vita a Cristo, proprio perchè Gesù ci ha indicato che la vera via è quella dell'amore totale verso le persone.
E' il modello di santità che ci ha proposto il futuro beato Giovanni Paolo II, che diventerà tale il prossimo primo maggio.
Signore aiutaci da un lato a gustare la comunione tra noi e tra le Chiese.
La preghiera possa diventare fonte di unità, perchè in questo nostro appellarci al Cristo troviamo il fondamento del cammino ecumenico.
Dacci poi la forza di essere testimoni gioiosi del tuo Vangelo nella Galilea di oggi, in questo crogiuolo di razze, di culture , di tradizioni ecclesiali diverse che esigono una spiritualità ancora più forte ossia un approfondimento ulteriore del nostro credere, del nostro cammino di fedeli alla Chiesa Cattolica.
Il Signore ci accompagni e guidi i nostri passi.
Don Luigi
-------------

858 - Sant'Agnese

Agnese nacque a Roma da genitori cristiani, appartenenti ad illustre famiglia patrizia, nel III secolo. Decise di consacare al Signore la sua verginità. Quando era ancora dodicenne, scoppio una persecuzione e molti furono i fedeli che s’abbandonavano in massa alla defezione. Agnese rimase fedele al Cristo e gli sacrificò la sua giovane vita. Fu denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei e da lei respinto per mantenre fede al suo voto di verginità. Fu esposta nuda al Circo Agonale, un luogo di piazza Navona (oggi cripta di Sant'Agnese) delegato alle pubbliche prostitute. Un uomo che cercò di avvicinarla cadde morto prima di poterla sfiorare e altrettanto miracolosamente risorse per intercessione della santa. Gettata nel fuoco, questo si estinse per le sue orazioni, fu allora trafitta con colpo di spada alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli. Per questo nell'iconografia è raffigurata spesso con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio.
S. Ambrogio e S. Damaso hanno esaltato il suo esempio e il suo nome è scritto nel canone della messa. Nel Martiriologo romano è riportato lo scritto del beato Girolamo, che di lei dice: "Con gli scritti e con le lingue di tutte le genti, specialmente nelle chiese, fu lodata la vita di Agnese; la quale vinse e l'età e il tiranno, e col martirio consacrò la gloria della castità".
La principessa Costantina, figlia di Costantino il Grande, fece erigere in suo nome una chiesa sulla via Nomentana dove ogni anno, il 21 gennaio, due agnelli allevati da religiose vengono benedetti e offerti al papa perchè dalla loro lana siano tessute le bianche stole dei patriarchi e dei metropoliti del mondo cattolico. E' patrona delle giovani, dei Trinitari, dei giardinieri, degli ortolani e protettrice della castità. La data della morte non è certa, qualcuno la colloca tra il 249 e il 251 durante la persecuzione voluta dall'imperatore Decio e ordinata dal prefetto di Roma Sinfronio, altri nel 304 durante la persecuzione ordinata da Diocleziano.

857 - Vangelo del 23/1/2011 Domenica 3^ tempo ord.

Venne a Cafàrnao perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa.


+ Dal Vangelo secondo Matteo (4,12-23)
Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa:
«Terra di Zàbulon e terra di Nèftali,
sulla via del mare, oltre il Giordano,
Galilea delle genti!
Il popolo che abitava nelle tenebre
vide una grande luce,
per quelli che abitavano in regione e ombra di morte
una luce è sorta».
Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.
Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.
-------

mercoledì 19 gennaio 2011

856 - Udienza del 19/1/2011 (Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani)

Cari fratelli e sorelle,

stiamo celebrando la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, nella quale tutti i credenti in Cristo sono invitati ad unirsi in preghiera per testimoniare il profondo legame che esiste tra loro e per invocare il dono della piena comunione. È provvidenziale il fatto che, nel cammino per costruire l’unità, venga posta al centro la preghiera: questo ci ricorda, ancora una volta, che l’unità non può essere semplice prodotto dell’operare umano; essa è anzitutto un dono di Dio, che comporta una crescita nella comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Concilio Vaticano II dice: “Queste preghiere in comune sono senza dubbio un mezzo molto efficace per impetrare la grazia dell'unità e costituiscono una manifestazione autentica dei vincoli con i quali i cattolici rimangono uniti con i fratelli separati: «Poiché dove sono due o tre adunati nel nome mio [dice il Signore], ci sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).” (Decr. Unitatis Redintegratio, 8). Il cammino verso l’unità visibile tra tutti i cristiani abita nella preghiera, perché fondamentalmente l’unità non la “costruiamo” noi, ma la “costruisce” Dio, viene da Lui, dal Mistero trinitario, dall’unità del Padre con il Figlio nel dialogo d’amore che è lo Spirito Santo e il nostro impegno ecumenico deve aprirsi all’azione divina, deve farsi invocazione quotidiana dell’aiuto di Dio. La Chiesa è Sua e non nostra.
Il tema scelto quest’anno per la Settimana di Preghiera fa riferimento all’esperienza della prima comunità cristiana di Gerusalemme, così come è descritta dagli Atti degli Apostoli; abbiamo sentito il testo: “Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42). Dobbiamo considerare che già al momento della Pentecoste lo Spirito Santo discende su persone di diversa lingua e cultura: ciò sta a significare che la Chiesa abbraccia sin dagli inizi gente di diversa provenienza e, tuttavia, proprio a partire da tali differenze, lo Spirito crea un unico corpo. La Pentecoste come inizio della Chiesa segna l’allargamento dell’Alleanza di Dio a tutte le creature, a tutti i popoli e a tutti i tempi, perché l’intera creazione cammini verso il suo vero obiettivo: essere luogo di unità e di amore.
Nel brano citato degli Atti degli Apostoli, quattro caratteristiche definiscono la prima comunità cristiana di Gerusalemme come luogo di unità e di amore e san Luca non vuol solo descrivere una cosa del passato. Ci offre questo come modello, come norma della Chiesa presente, perché queste quattro caratteristiche devono sempre costituire la vita della Chiesa. Prima caratteristica, essere unita e ferma nell’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli, poi nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Come ho detto, questi quattro elementi sono ancora oggi i pilastri della vita di ogni comunità cristiana e costituiscono anche l’unico solido fondamento sul quale progredire nella ricerca dell’unità visibile della Chiesa.
Anzitutto abbiamo l’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli, ovvero l’ascolto della testimonianza che essi rendono alla missione, alla vita, alla morte e risurrezione del Signore. È ciò che Paolo chiama semplicemente il “Vangelo”. I primi cristiani ricevevano il Vangelo dalla bocca degli Apostoli, erano uniti dal suo ascolto e dalla sua proclamazione, poiché il vangelo, come afferma S. Paolo, “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1,16). Ancora oggi, la comunità dei credenti riconosce nel riferimento all’insegnamento degli Apostoli la norma della propria fede: ogni sforzo per la costruzione dell’unità tra tutti i cristiani passa pertanto attraverso l’approfondimento della fedeltà al depositum fidei trasmessoci dagli Apostoli. Fermezza nella fede è il fondamento della nostra comunione, è il fondamento dell’unità cristiana.
Il secondo elemento è la comunione fraterna. Al tempo della prima comunità cristiana, come pure ai nostri giorni, questa è l’espressione più tangibile, soprattutto per il mondo esterno, dell’unità tra i discepoli del Signore. Leggiamo negli Atti degli Apostoli che i primi cristiani tenevano ogni cosa in comune e chi aveva proprietà e sostanze le vendeva per farne parte ai bisognosi (cfr At 2,44-45). Questa condivisione delle proprie sostanze ha trovato, nella storia della Chiesa, modalità sempre nuove di espressione. Una di queste, peculiare, è quella dei rapporti di fraternità e di amicizia costruiti tra cristiani di diverse confessioni. La storia del movimento ecumenico è segnata da difficoltà e incertezze, ma è anche una storia di fraternità, di cooperazione e di condivisione umana e spirituale, che ha mutato in misura significativa le relazioni tra i credenti nel Signore Gesù: tutti siamo impegnati a continuare su questa strada. Secondo elemento, quindi, la comunione, che innanzitutto è comunione con Dio tramite la fede; ma la comunione con Dio crea la comunione tra di noi e si esprime necessariamente in quella comunione concreta della quale parlano gli Atti degli Apostoli, cioè la condivisione. Nessuno nella comunità cristiana deve avere fame, deve essere povero: questo è un obbligo fondamentale. La comunione con Dio, realizzata come comunione fraterna, si esprime, in concreto, nell’impegno sociale, nella carità cristiana, nella giustizia.
Terzo elemento: nella vita della prima comunità di Gerusalemme essenziale era il momento della frazione del pane, in cui il Signore stesso si rende presente con l’unico sacrificio della Croce nel suo donarsi completamente per la vita dei suoi amici: “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi … questo è il calice del mio Sangue … versato per voi”. “La Chiesa vive dell'Eucaristia. Questa verità non esprime soltanto un'esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della Chiesa” (Giovanni Paolo II, Enc. Ecclesia de Eucharistia, 1). La comunione al sacrificio di Cristo è il culmine della nostra unione con Dio e rappresenta pertanto anche la pienezza dell’unità dei discepoli di Cristo, la piena comunione. Durante questa settimana di preghiera per l’unità è particolarmente vivo il rammarico per l’impossibilità di condividere la stessa mensa eucaristica, segno che siamo ancora lontani dalla realizzazione di quell’unità per cui Cristo ha pregato. Tale dolorosa esperienza, che conferisce anche una dimensione penitenziale alla nostra preghiera, deve diventare motivo di un impegno ancora più generoso da parte di tutti affinché, rimossi gli ostacoli alla piena comunione, giunga quel giorno in cui sarà possibile riunirsi intorno alla mensa del Signore, spezzare insieme il pane eucaristico e bere allo stesso calice.

 Infine, la preghiera - o come dice san Luca le preghiere - è la quarta caratteristica della Chiesa primitiva di Gerusalemme descritta nel libro degli Atti degli Apostoli. La preghiera è da sempre l’atteggiamento costante dei discepoli di Cristo, ciò che accompagna la loro vita quotidiana in obbedienza alla volontà di Dio, come ci attestano anche le parole dell’apostolo Paolo, che scrive ai Tessalonicesi nella sua prima lettera: “State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5, 16-18; cfr. Ef 6,18). La preghiera cristiana, partecipazione alla preghiera di Gesù, è per eccellenza esperienza filiale, come ci attestano le parole del Padre Nostro, preghiera della famiglia - il “noi” dei figli di Dio, dei fratelli e sorelle - che parla al Padre comune. Porsi in atteggiamento di preghiera significa pertanto anche aprirsi alla fraternità. Solo nel “noi” possiamo dire Padre Nostro. Apriamoci dunque alla fraternità, che deriva dall’essere figli dell’unico Padre celeste, ed essere disposti al perdono e alla riconciliazione.
Cari Fratelli e Sorelle, come discepoli del Signore abbiamo una comune responsabilità verso il mondo, dobbiamo rendere un servizio comune: come la prima comunità cristiana di Gerusalemme, partendo da ciò che già condividiamo, dobbiamo offrire una forte testimonianza, fondata spiritualmente e sostenuta dalla ragione, dell’unico Dio che si è rivelato e ci parla in Cristo, per essere portatori di un messaggio che orienti e illumini il cammino dell’uomo del nostro tempo, spesso privo di chiari e validi punti di riferimento. E’ importante, allora, crescere ogni giorno nell’amore reciproco, impegnandosi a superare quelle barriere che ancora esistono tra i cristiani; sentire che esiste una vera unità interiore tra tutti coloro che seguono il Signore; collaborare il più possibile, lavorando assieme sulle questioni ancora aperte; e soprattutto essere consapevoli che in questo itinerario il Signore deve assisterci, deve aiutarci ancora molto, perché senza di Lui, da soli, senza il “rimanere in Lui” non possiamo fare nulla (cfr Gv 15,5).
Cari amici, è ancora una volta nella preghiera che ci troviamo riuniti - particolarmente in questa settimana - insieme a tutti coloro che confessano la loro fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio: perseveriamo nella preghiera, siamo uomini della preghiera, implorando da Dio il dono dell’unità, affinché si compia per il mondo intero il suo disegno di salvezza e di riconciliazione. Grazie.
----------

855 - Vita di Gesù (paragrafi 20-24)

IV - I procuratori romani: Ponzio Pilato


§ 20. Quando l'etnarca Archelao fu deposto ed esiliato, Augusto annesse all'Impero i territori a lui sottoposti, cioè la Giudea, Samaria e Idumea: in tal modo egli appagò allora, che si era presentata l'oc­casione buona, il desiderio di quella delegazione di Giudei che dieci anni prima era venuta appositamente a Roma a chiedergli l'annes­sione della Palestina all'Impero (§ 13). Quando una regione passava sotto la diretta amministrazione di Roma, veniva eretta in provincia oppure veniva unita ad una delle province già esistenti. Nel 27 av. Cr. Augusto aveva spartito fra sé e il Senato le province: quelle di frontiera e meno sicure, presidiate da forti guarnigioni, le aveva tenute per sé; mentre quelle interne, tranquille e debolmente presidiate, le aveva lasciate al Senato. Di qui la divisione in province senatorie ed imperiali. Le senatorie era­no governate, come in antico, da proconsoli (legati pro consule) eletti di solito annualmente; per quelle imperiali, invece, fungeva da proconsole comune a tutte Augusto stesso, il quale però le governava inviandovi i suoi legati Augusti pro praetore designati da lui. Il legatus di provincia apparteneva sempre all'ordine dei se­nàtori. Ma in alcune province che esigevano particolare delicatezza di governo (ad esempio l'Egitto) Augusto spediva, non un legatus, ma un praefectus: così' pure in altre regioni annesse recentemente all'Impero, e che offrivano speciali difficoltà, era spedito un pro­curator il quale però apparteneva all'ordine dei cavalieri. Veramen­te la carica di procurator fu dapprima di natura finan­ziaria, ed esisteva anche nelle province senatorie; ma in pratica, specialmente dopo Augusto, il titolo di procurator sostitui' quello di praefectus nelle regioni recentemente annesse (salvo che in Egitto). I territori lasciati da Archelao furono annessi alla sovrastante pro­vincia della Siria, la quale era imperiale e fra le più importanti a causa della sua posizione geografica. Tuttavia non fu una annessione piena e totale, ma piuttosto una subordinazione di poteri; nei nuo­vi territori, cioè, fu inviato un procurator dell'ordine dei cavalieri, che doveva esserne il governatore diretto e ordinario; egli tuttavia era invigilato nel suo ufficio dal legatus della provincia di Siria, il quale aveva pure facoltà nei casi più gravi d'intervenire nei terriori del procurator. La notoria difficoltà di governare i Giudei aveva indotto il prudente Augusto a questa subordinazione di poteri, in maniera che la giurisdizione ordinaria del procuratore fosse coadiu­vata ed eventualmente rettificata dalla giurisdizione superiore del vicino legato.



§ 21. Il procuratore romano della Giudea risiedeva abitualmente a Cesarea marittima, la città recentemente Costruita con suntuosità da Erode il Grande, l'unica fornita di porto e giustamente chiamata da Tacito “capitale della Giudea” sotto l'aspetto politico; tuttavia spesso il procuratore si trasferiva a Gerusalemme, capitale religiosa e nazionale, specialmente in occasione di feste (ad es. la Pasqua), trovandosi ivi un miglior centro di vigilanza. Tanto a Ce­sarea quanto a Gerusalemme, i due rispettivi palazzi di Erode servivano da praetorium, com'era chiamata la residenza del procuratore: ma in Gerusalemme egli si serviva per il disbrigo di affari anche della potentissima e comoda fortezza Antonia, che sovrastava al Tem­pio (§ 49). Nell'Antonia aveva anche il proprio quartiere la guar­nigione militare di Gerusalemme. Quale comandante militare della regione, il procuratore aveva alle sue dipendenze non legioni romane, ch'erano composte di cives romani e stazionavano nella provincia della Siria, bensì truppe au­siliarie reclutate di solito fra Samaritani, Siri e Greci, godendo i Giudei dell'antico privilegio di esenzione dal servizio miltare. Que­ste truppe erano di solito divise in “coorti” per la fanteria e in “ali” per la cavalleria. Le truppe della Giudea, a quanto sembra, erano costituite da cinque “coorti” e da una “ala”, raggiungendo complessivamente la forza di poco più di tremila uomini: una coorte era di stanza permanente a Gerusalemme. Quale capo amministrativo, il procuratore presiedeva alla esazione delle imposte e gabelle varie. Le imposte, di natura o fondiaria o personale o di reddito, erano dovute dalla regione in quanto tribu­taria di Augusto e perciò finivano nel fiscus o cassa imperiale (men­tre le imposte delle province senatorie finivano nell'aerarium o cassa del Senato): nel riscuotere queste imposte il procuratore si serviva di agenti statali, coadiuvati tuttavia dalle autorità locali. Le gabelle poi comprendevano diritti diversi, quali dazi, pedaggi, affitti di luo­ghi pubblici, mercati e altri; la loro riscossione, come nel resto dell'Impero, era data in appalto a ricchi imprenditori i pubblicani che pagavano al procuratore una certa somma, di cui si rifacevano con la riscossione di una determinata partita di ga­belle: gli impiegati dipendenti da questi appaltatori generali erano gli exactores o portitores. E’ superfluo dire quanto fossero odiati dal popolo tutti costoro, sia pubblicani sia exactores, e quanti soprusi ed estonsioni avvenissero, specialmente se gli appaltatori subaffittavano il loro appalto come spesso accadeva: tutto il peso di questo complicato bagarinaggio finiva col gravare sul contribuente.


§ 22. Quale amministratore della giustizia il procuratore aveva il suo tribunale, in cui esercitava il ius gladii con potestà di pronunziare sentenze capitali; chi godeva della cittadinanza romana poteva appellare dal suo tribunale a quello dell'imperatore a Roma, mentre per gli altri non esisteva appello. Ma per i casi ordinari continua­rono ad esistere e a funzionare liberamente in Giudea i tribunali lò­cali della nazione, e in primo luogo quello del Sinedrio a Gerusa­lemme (§ 57 segg.): esso aveva conservato anche autorità legislativa, sia in materia religiosa sia parzialmente in quella civile e tributaria, che si estendeva ai membri della nazione. Tuttavia al Sinedrio era stata tolta la potestà di pronunziare sentenze capitali (§ 59). In sostanza, sotto i procuratori, l'antico ordinamento nazionale del giudaismo era stato conservato. Il vero capo della nazione restava sempre il sommo sacerdote: in realtà la sua elezione e deposizione spettavano al procuratore e al legato di Siria, ma costoro procede­vano ad esse accordandosi con le più autorevoli famiglie sacerdotali, finché dall'anno 50 in poi rinunziarono anche a questi diritti ceden­doli ai principi della dinastia erodiana. A fianco al sommo sacerdote, dopo l'annessione all'Impero, stette il procuratore quale sorvegliante politico e rappresentante del fisco imperiale. Nel campo religioso le autorità romane, conforme alla loro antica tradizione, seguirono costantemente la norma del rispetto assoluto, non solo alle autorevoli istituzioni della nazione, ma spesso anche a pregiudizi e stravaganze; alcune volte, è vero, questa norma ebbe eccezioni più o meno gravi per colpa di singoli magistrati, ma presto queste imprudenze furono sconfessate con atti opposti. Si cercò an­che di associarsi in certi casi alle costumanze tradizionali, per mo­strare verso di esse non soltanto rispetto ma anche simpatia; ad esempio, giunsero più volte dalla famiglia imperiale di Roma offerte per il Tempio di Gerusalemme, e Augusto stesso volle che vi fossero sacrificati ogni giorno un bove e due agnelli per Cesare e per il popolo romano (cfr. Guerra giud., IT, 197) sostenendone la spesa - a quanto sembra - l'imperatore stesso (cfr. Filone, Lega. ad Caium, 23, 40).


§ 23. Molti furono i privilegi mantenuti o concessi da Roma alla nazione giudaica, anche sotto il regime dei procuratori. Per riguardo al riposo del sabato i Giudei erano esenti dal servizio militare e non potevano essere citati in giudizio in quel giorno. Per riguardo alla norma giuridica che proibiva qualsiasi raffigurazione di esseri animati viventi, i soldati romani che entravano di presidio a Geru­salemme avevano ordine di non portare con sé i vessilli su cui era effigiato l'imperatore; per lo stesso motivo le monete romane co­niate in Giudea - le quali erano soltanto di bronzo - non avevano l'effigie dell'imperatore, ma solo il suo nome con simboli ammessi dal giudaismo: vi circolavano tuttavia anche monete d'oro e d'ar­gento che recavano la riprovata immagine, ma perché erano state coniate fuori della Giudea (§ 514). Tanto meno fu imposto nella Giudea il culto per la persona del­l'imperatore, che pure nelle altre province dell'Impero era un atto fondamentale d'ordinario governo: la sola eccezione a questo pri­vilegio fu tentata da Caligola nel 40, allorché lo squilibrato impera­tore si mise in testa di avere una propria statua eretta dentro il Tempio di Gerusalemme, ma il tentativo non riuscì per la fermezza. dei Giudei e per la prudenza di Petronio legato di Siria. In conclusione, la Giudea governata da procuratori romani non si trovò affatto in condizioni peggiori della Giudea governata da Erode il Grande o anche da taluni dei precedenti Asmonei. Naturalmen­te molto dipendeva dal senno e dalla rettitudine dei singoli procu­ratori: e qui in verità le deficienze furono numerose e gravi special­mente negli ultimi anni avanti alla guerra e alla catastrofe dell'anno 70, allorché a governare un popolo sempre più intollerante e far­neticante erano inviati procuratori sempre più venali e brutali.


§ 24. Dai primi procuratori della Giudea sappiamo poco o nulla che abbia diretta relazione con Gesù. Il primo fu Coponio che entrò in carica nell'anno 6 dopo Cr., cioè appena deposto Archelao; giunto sul luogo, egli insieme col legato di Siria, Sulpicio Quirinio, esegui' il censimento (§ 183 segg.) della regione nuovamente annessa, giacché secondo i principii romani soltanto un regolare censimento delle persone e dei beni poteva fornire la base della futura amministra­zione; nonostante gravi difficoltà il censimento fu portato a termi­ne. Coponio rimase in carica tre anni (6-9), e altrettanto i suoi suc­cessori Marco Ambivio (o Ambibulo) (9-12) e Annio Rufo (12-15), che fu l'ultimo eletto da Augusto. Il primo eletto da Tiberio fu Valerio Grato (15-26). Costui da prin­cipio ebbe difficoltà a trovare un sommo sacerdote con cui andasse d'accordo, giacché depose subito quello trovato in carica, cioè Anano (Anna), e in quattro anni gli dette quattro successori, cioè Ismaele, Eleazaro, Simone e Giuseppe detto Qajapha (Caifa): con quest'ul­timo pare che andasse d'accordo. A Valerio Grato successe Ponzio Pilato nell'anno 26.
------------

domenica 16 gennaio 2011

854 - Vita di Gesù (paragrafi 17-19)

§ 17. Compiuto il misfatto, il re Areta non pensò che a vendicare l'oltraggio fatto alla propria figlia, mentre i sudditi di Antipa non fecero che mormorare sdegnati per la sfacciata violazione delle leg­gi nazionali e religiose: ma, sebbene cordiali e diffuse, le mormora­zioni erano soltanto segrete, perché nessuno ardiva affrontare diret­tamente la tracotanza del monarca e specialmente il geloso furore della sua adultera e incestuosa concubina. Una sola persona ebbe questo ardimento, e fu Giovanni il Battista, che godeva d'altissima autorità presso il popolo (Antichità giud., XVIII, 116 segg.) e anche d'una certa venerazione superstiziosa da parte d'Antipa. Giovanni fu messo in prigione a Macheronte: questo provvedimento fu cau­sato sia dalla sua franca riprovazione dello scandalo di corte, come apprendiamo dai vangeli, sia dalla sua autorità popolare che aveva destato sospetti in corte, come apprendiamo da Flavio Giuseppe; ma non è escluso che una spinta venisse anche da parte dei gelosi Farisei (§ 292). Giovanni rimase in prigione parecchi mesi, circa una decina. Questa prolungata permanenza non poteva esser gradita ad Erodiade, che avrebbe voluto disfarsi subito dell'austero e inflessibile censore: ma Antipa, avendolo ormai in catene, non era propenso a macchiarsi del suo sangue, sia per quel timore reverenziale ch'egli personal­mente ne aveva, sia per paura che il popolo insorgesse alla notizia che quell'uomo venerato era stato ucciso cosi ingiustamente e vigliaccamente. Ma Erodiade spiava l'occasione per ottenere il suo desiderio: l'occasione venne, la ballerina sua figlia le ottenne la testa mozzata del prigioniero, e quando l'incestuosa e adultera madre poté afferrare e palpeggiare quella testa si giudicò vendicata e vittorio­sa (§355).
E invece cominciava la sua disfatta, giacché anche il re Areta spia­va l'occasione per vendicarsi. Nel 36 una contestazione di frontiere fra i due monarchi portò alla guerra, e Antipa rimase totalmente sconfitto. Allora il burbanzoso tetrarca supplicò umilmente il lon­tano Tiberio che l'aiutasse, e l'imperatore ch'era molto sensibile verso la sua spia di Galilea ordinò al legato di Siria, Vitellio, di muovere contro Areta e di mandare a Roma o l'audace arabo incatenato vivo. oppure la testa di lui morto (Antichità giud., XVIII, 115). Ma Areta non era Giovanni, né Vitellio era disposto a far la parte già fatta dalla figlia ballerina. Vitellio, che aveva vecchi rancori contro Antipa per le sue delazioni a Roma, si mosse a malincuore cercando tutti i pretesti per mandare la spedizione per le lunghe; la fortuna poi l'aiutò, perché quando giunse con l'esercito a Gerusa­lemme gli pervenne la notizia che Tiberio era morto (16 marzo del 37). Naturalmente la spedizione finì lì, Areta non fu disturbato, e la sconfitta di Antipa rimase invendicata.



§ 18. Il tracollo definitivo del tetrarca avvenne due anni dopo, e fu causato direttamente da Erodiade. La smaniosa donna s’arrovellò d'invidia quando, nel 38, si presentò in Palestina suo fratello Erode Agrippa I: costui, che fino a pochi mesi prima era stato un avven­turiero carico di debiti ed esperto anche di catene romane, aveva fatto a Roma una sbalorditiva fortuna con l'elezione del suo amico Caio Caligola, che oltre a colmarlo di favori d'ogni sorta l'aveva anche creato re, assegnandogli territori che confinavano a setten­trione con quelli di Antipa; e adesso il potente amico del nuovo imperatore veniva a prender possesso dei suoi dominii. Al vederlo salito a tanta altezza, Erodiade ripensò che il suo Antipa dopo tanti anni di servile operosità in pro della lontana Roma si trovava an­cora nella bassezza d'un semplice tetrarca, ed era tanto poco apprez­zato che i suoi nemici potevano sconfiggerlo senza che Roma ve­nisse in suo aiuto: indubbiamente, per far fortuna come Agrippa, bisognava come lui presentarsi nella capitale dell'Impero e là inge­gnarsi e sbrigare personalmente. Convintasi di ciò, la fremente donna tanto insistette presso il riluttante Antipa che lo indusse a recarsi a Roma, per ottenervi il titolo di re e altri eventuali favori. Accompagnato da Erodiade, Antipa si presentò a Caligola in Baia. Ma Agrippa, sospettoso dei due viaggiatori, li aveva fatti seguire da un suo liberto che recava lettere, a quanto pare calunniose, contro Antipa. Trovandosi inaspettatamente di fronte ad un'accusa di tra­dimento, invece che alla sperata proclamazione a re, Antipa non sep­pe dare chiare spiegazioni; perciò Caligola lo giudicò colpevole, lo destitui ed inviò in esilio a Lione nelle Gallie, ed assegnò i territori della sua tetrarchia all'accusatore Agrippa. Erodiade, che con la sua ambizione aveva causato questa rovina, segui spontaneamente nell'esilio lo spodestato tetrarca, sebbene Caligola avesse lasciato a lei come sorella dell'amico Agrippa, ampia libertà e il pieno godimento dei suoi beni. Ciò avvenne fra gli anni 30 e 40 dopo Cr.


§ 19. Il terzo degli eredi diretti di Erode il Grande, cioè il tetrarca Filippo, non figura direttamente nella storia di Gesu'. Governò i suoi territori fino alla sua morte, avvenuta nel 34 dopo Cr., e pare che fosse un principe equanime e d'indole tranquilla: ma ad un certo tempo dovette rammollirsi alquanto di cervello, perché nella sua maturità d'anni sposò la ballerina figlia di Erodiade, cioè Salome, che gli era pronepote ed aveva almeno trent'anni meno di lui. A Panion, presso le sorgenti del Giordano, egli ricostruì totalmente la precedente città e in onore di Augusto la chiamò Cesarea: ma co­munemente fu chiamata Cesarea di Filippo, per distinguerla dalla Cesarea sul mare edificata da Erode il Grande. L'antico nome di Panion (oggi Banias) proveniva da una grotta consacrata al dio Pan presso le sorgenti; ma alla ricostruzione totale della città un magnifico tempio marmoreo dedicato ad Augusto sorse presso la grotta, e troneggiando sulla cima d'una maestosa roccia era il pri­mo oggetto che attirasse lo sguardo di chi si avvicinava alla cit­tà (§396). Sulla riva settentrionale del lago di Gennesareth, poco ad oriente dallo sbocco del Giordano nel lago, Filippo ricostrui totalmente an­che la borgata di Bethsaida, e la chiamò Giulia in onore della fi­glia di Augusto.
-------

Medaglia di San Benedetto